La riforma del Titolo V della Costituzione
La riforma del Titolo V della Costituzione è entrata in vigore l’8 novembre 2001 dopo un lungo iter normativo: il Senato, con deliberazione adottata l’8 Marzo 2001, ha approvato la Legge Costituzionale n. 3/2001 (riforma Titolo V della Costituzione [artt. 114–132 Cost.] disciplina delle autonomie locali) con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo tale legge è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì) che è poi entrata in vigore il mese successivo. Si può affermare che la legge ha operato una “costituzionalizzazione” di quel “decentramento amministrativo a Costituzione invariata” introdotto in virtù della produzione legislativa del Ministro della Funzione pubblica On. Bassanini. Grazie alle leggi del 1997 nn. 59 e 127 è stato finalmente introdotto nel nostro ordinamento il principio di sussidiarietà (principio di derivazione comunitaria che ha trovato affermazione grazie al Trattato di Maastricht il quale ha dato vita alla Unione Europea realizzando la fusione e il superamento delle Comunità Europee).
Analizzando
nel dettaglio, vediamo come l’art. 1 della legge in esame modifica l’art. 114
Cost.: la prima novità è quella di riconoscere la distinzione tra Repubblica e
Stato, ponendo quest’ultimo sullo stesso piano, dal punto di vista
istituzionale, di Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni (nel testo
previgente si limitava a prevedere la ripartizione dello Stato – Repubblica in
Regioni, Province e Comuni). La riformulazione del 1° comma, inverte il
precedente ordine degli enti territoriali indicati ed evidenzia il rilevante
ruolo riconosciuto al Comune inteso quale ente di base, il più vicino ai
cittadini, chiamato in via primaria a soddisfare i loro interessi, nel rispetto
del principio di sussidiarietà. Rilevante è la espressa previsione
costituzionale delle Città metropolitane, introdotte dalla L. 142/90 e ora
riconfermate e regolamentate dal Testo Unico degli Enti Locali (artt. 23 ss.
del D.lgs. n. 267 del 2001) enti che fino ad oggi non hanno trovato concreta
realizzazione in quanto il legislatore si è limitato ad individuare la porzione
di territorio sul quale detti enti andranno ad insistere, ovvero le aree
metropolitane. Maggior significato sostanziale ha il 2° comma in quanto sancisce
l’autonomia statutaria di tutti gli enti sopra indicati; tale autonomia,
infatti, se per le Regioni era già costituzionalizzata dall’art. 123 Cost., per
Comuni, Province ed altri enti locali, era stabilita soltanto a livello di
legislazione ordinaria (art. 6 T.U. Enti Locali). Di pari rilievo è il
riconoscimento che gli statuti, i poteri e le funzioni delle autonomie locali
sono assoggettati ai princìpi fissati dalla Costituzione: tale affermazione
sembra voler elevare gli statuti locali al rango di fonti primarie, non più
soggetti ai princìpi stabiliti dalle leggi dello Stato, ma solo a quelli
costituzionali. Tuttavia, se tale natura risulta indiscussa riferendoci agli
statuti regionali, approvati con legge regionale ex art. 123 Cost., più ardua
appare la qualificazione in questi termini degli statuti degli altri enti
locali che, a norma del citato art. 6 TUEL, sono adottati con deliberazione
consiliare e soggiacciono ai princìpi dello stesso Testo Unico, in quanto
qualificati dalla prevalente dottrina quali fonti sub-primarie. A conferma di
ciò sta anche la disposizione del nuovo art. 117 (come modificato dalla legge
costituzionale n. 3/2001), che attribuisce alla potestà legislativa esclusiva
dello Stato la materia della legislazione elettorale, organi di governo e
funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane (comma 2°,
lettera p); gli statuti locali saranno quindi chiamati a muoversi nella cornice
dettata dalla legge statale. Il 3° comma dell’art. 114, infine,
istituzionalizza lo status di Roma capitale d’Italia, prevedendo che il suo
ordinamento sia disciplinato con legge statale; in tal modo si riconosce la
peculiare posizione ed importanza della città Capitolina per la Repubblica
italiana.
La nuova
formulazione dell’art. 114 ha determinato la abrogazione degli artt. 115 e 128
Cost. le cui disposizioni sono state trasposte in quelle sopra richiamate.
L’art. 2
legge costituzionale n. 3/2001, introduce il terzo comma dell’art. 116 Cost.,
prevedendo la possibilità di concedere alle Regioni a statuto ordinario,
attraverso la legge dello Stato, quelle forme e condizioni particolari di
autonomia, proprie delle Regioni a statuto speciale in virtù delle previsioni
del 1° comma dello stesso articolo. Tale disposizione si riferisce alle materie
espressamente individuate ai commi 2 e 3 dell’art. 117 (ovvero quelle di
competenza esclusiva dello Stato e di competenza concorrente Stato-Regioni) e
probabilmente sostanzia un’attribuzione di potestà legislativa esclusiva alle
Regioni a statuto ordinario che si va ad aggiungere a quelle individuate dal 4°
comma dell’art. 117 (parliamo infatti di regionalismo differenziato).
Intervento
significativo della riforma è rappresentato dalla nuova formulazione dell’art.
117 Cost., il quale disciplina la distinzione tra potestà legislativa dello
Stato e potestà legislativa delle Regioni (ordinarie). La nuova formulazione
ribalta completamente l’impostazione precedente dove erano indicate
tassativamente le materie nelle quali le Regioni potevano legiferare (in concorrenza
con lo Stato) mentre in tutte le altre vi era potestà legislativa esclusiva
dello Stato; ora invece sono elencate tassativamente le materie attribuite alla
legislazione esclusiva dello Stato (comma 2°) e alla legislazione concorrente
Stato – Regioni (comma 3°), mentre si afferma che spetta alle Regioni la
potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata
in base ai commi precedenti (comma 4°). Abbiamo così una competenza legislativa
regionale residuale che rispecchia la residualità delle funzioni amministrative
regionali disciplinata dall’art. 1
della L. n. 59 del 1997 (Bassanini 1) e riconfermata dal D.lgs. 112/98 che ha
dato attuazione alla legge stessa. Il principio di residualità ci porta a
sostenere che, laddove non sia espressamente indicato altrimenti, una materia
deve ritenersi oggetto di potestà legislativa da parte delle regioni; per
quanto riguarda la potestà regolamentare il 6° comma dispone che lo Stato la
mantiene soltanto nelle materie in cui ha potestà legislativa esclusiva, mentre
spetta alle Regioni la possibilità di intervenire con regolamento nelle materie
concorrenti ed in quelle esclusivamente riconosciute di competenza regionale.
Nella potestà legislativa concorrente troviamo sempre la norma dello Stato che
detta i principi generali e la norma regionale che dà attuazione agli stessi.
Sono attribuite esclusivamente
allo Stato tutte quelle funzioni che non possono trovare disciplina se non a
livello statale, in quanto attinenti a rapporti internazionali (politica
estera, diritto d’asilo e diritti di cittadini extracomunitari, dogane),
riguardanti diritti fondamentali delle persone (ordinamento civile e penale,
norme processuali, cittadinanza, difesa e ordine pubblico, previdenza sociale,
tutela dell’ambiente), inerenti l’organizzazione dello Stato (legislazione
elettorale, ordinamento degli enti pubblici nazionali), o infine, perché
necessitano di una regolamentazione a livello unitario su tutto il territorio
della Repubblica (moneta, sistema valutario e tributario, perequazione delle
risorse finanziarie).
Rilevante è il riconoscimento alle
Regioni della possibilità di entrare a diretto contatto con altri Stati o enti
di altri Stati: il 9° comma del nuovo art. 117, prevede che nell’ambito delle
loro competenze, le Regioni possono concludere accordi con Stati e intese con
enti territoriali interni ad altro Stato nel rispetto della procedura fissata
con legge dello Stato. Questa possibilità di porsi direttamente in rapporto con
altri enti stranieri rappresenta un rilevante passo verso una piena autonomia
delle Regioni (anche se la politica internazionale italiana dovrà pur sempre
mantenere una certa unità di indirizzi in quanto sarebbe inconcepibile
ricorrere a 20 diversi approcci internazionali).
Parimenti
innovato rispetto alla vecchia formulazione risulta l’art. 118, in tema di
funzioni amministrative. Mentre il testo precedente le attribuiva alle Regioni
o allo Stato secondo il cd. principio del parallelismo, in base al quale tali
funzioni erano riconosciute nelle stesse materie in cui gli stessi avevano
l’esercizio della potestà legislativa, la nuova disposizione le conferisce di
norma ai Comuni, salva l’attribuzione a Province, Regioni o Stato, qualora
necessitino di un esercizio unitario ovvero riguardino interessi che
trascendano la realtà comunale. In sostanza la norma in esame non fa altro che
recepire a livello costituzionale il principio di sussidiarietà, sopra
richiamato, espressamente richiamato insieme a quelli di differenziazione ed
adeguatezza. Quest’ultimo riguarda la verifica dell’idoneità organizzativa
dell’amministrazione rispetto al corretto esercizio delle funzioni ad essa
attribuite; la differenziazione, invece, ci porta a considerare le diverse
caratteristiche (strutturali, territoriali e anche demografiche) degli enti cui
si vogliano conferire poteri amministrativi al fine di rendere effettivo ed
efficace il decentramento, in modo che le funzioni siano trasferite ad organi
in grado di svolgerle correttamente, senza legittimare poi interventi
sostitutivi di enti superiori. Il 4° comma del nuovo art. 118 applica il
principio di sussidiarietà anche ai rapporti tra enti locali e cittadini: sono
infatti favorite le iniziative per lo svolgimento di attività di interesse
generale (è quello che la dottrina chiama principio di sussidiarietà
orizzontale).
Venendo
all’art. 119 Cost. sull’autonomia finanziaria notiamo come il decentramento
giuridico è strettamente legato a quest’ultima, in quanto risulterebbe svuotato
di ogni rilievo se non fosse accompagnato dalla concessione di adeguati mezzi
economici per la sua attuazione. Prima novità rispetto al testo precedente è
l’affermazione dell’autonomia finanziaria non soltanto per le Regioni, ma anche
per i Comuni, le Province e le Città Metropolitane. Tale autonomia è stata resa
più incisiva stabilendo prima di tutto che si tratta di autonomia di entrata e
di spesa (1° comma) e riconoscendo la possibilità per gli enti locali di
stabilire propri tributi ed entrate (2° comma). E’ bene ricordare che in
precedenza avevamo un sistema in cui detti enti erano destinatari dei
finanziamenti da parte dello Stato: avevamo infatti per le autonomie locali
un’autonomia finanziaria indiretta. Al fine di evitare che tra le Regioni si
creino disparità determinate dalla differente ricchezza economica delle stesse,
il 3° comma prevede l’istituzione con legge dello Stato di un fondo perequativo
a favore delle zone più svantaggiate. Ciò in rispondenza con quanto stabilito
dalla lettera e) del 2° comma dell’art. 117, dove è disposta la competenza
esclusiva dello Stato sulla materia della perequazione delle risorse
finanziarie. Il 5° comma dell’art. 119 prevede la possibilità per lo Stato di
destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali a favore di
determinati enti locali. L’articolo si chiude con una regola volta a prevenire
gli sprechi e a contenere la spesa delle autonomie locali: gli enti locali non
possono indebitarsi se non per finanziare investimenti. In ogni caso è esclusa
ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti dagli stessi enti locali
(comma 6°): la finalità della norma è quella di evitare che il nuovo sistema
finanziario comporti comunque oneri aggiuntivi per il bilancio statale, senza
che peraltro il Governo centrale abbia su tali spese poteri di controllo. Si è
provveduto così a responsabilizzare gli amministratori locali, i quali dovranno
gestire efficientemente le risorse a loro disposizione, senza poter contare su
aiuti provenienti da entità superiori.
L’art. 120 Cost. al primo comma ribadisce quanto già stabilito nei tre commi del testo precedente, ovvero il divieto per le Regioni di introdurre dazi nei confronti delle altre Regioni o comunque adottare misure che in qualsiasi modo ostacolino la libera circolazione delle persone o delle cose o, ancora, limitare l’esercizio del diritto di lavoro. Il 2° comma affida al Governo un potere di intervento sostitutivo nei confronti delle Regioni e degli altri enti locali, qualora essi si rendano inadempienti di fronte alle norme internazionali o comunitarie, oppure in caso di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Al forte decentramento si affianca così la funzione dello Stato volta al mantenimento dell’unitarietà ed uniformità dell’ordinamento (individuiamo qui un potere di intervento dello Stato che si pone quale competenza trasversale rivolta al recupero di materie non più esclusivamente statali). Le norme internazionali e comunitarie devono trovare una uniforme applicazione su tutto il territorio nazionale, mentre si deve evitare che le diverse condizioni economiche presenti nelle varie zone del territorio italiano si traducano in una disparità di trattamento dei cittadini. Tuttavia, al fine di prevenire ogni abuso degli indicati poteri sostitutivi, l’ultima parte del comma in esame stabilisce che detti interventi siano disciplinati dalla legge ed esercitati nel rispetto dei princìpi di sussidiarietà e di leale collaborazione (torna a farsi presente quell’interesse nazionale che caratterizzava il precedente ordinamento delle autonomie locali e che è stato cancellato “formalmente” dalla legge costituzionale n. 3/2001).
In
rispondenza alla maggiore autonomia degli enti territoriali rilevante è la
quasi totale scomparsa dei controlli statali sugli enti stessi. L’art. 9 della
legge costituzionale n. 3/2001 ha infatti abrogato l’art. 124 Cost. dove era
previsto il Commissario di Governo ovvero l’organo decentrato dello Stato che
aveva il compito di coordinare le funzioni amministrative centrali con quelle
della Regione. Un simile compito non è più in linea con il nuovo sistema di
ripartizione delle competenze e con la scelta di operare il coordinamento
secondo il principio di leale collaborazione cui è improntata l’intera attività
della Conferenza permanente Stato – Regioni. Considerando il Commissario di
Governo quale figura non più necessaria, si è provveduto a trasferire le
funzioni residuali al Prefetto posto a capo del nuovo Ufficio Territoriale di
Governo (U.T.G. introdotto dal D.Lgs. n. 300/1999). L’articolo in esame ha
disposto anche l’abrogazione del primo comma dell’art. 125 Cost., norma base
per la legittimazione dei controlli statali sugli atti amministrativi
regionali: prevedeva infatti i controlli di legittimità e autorizzava (ma in
via facoltativa) quelli di merito. E’ importante sottolineare che il sistema
dei controlli era già stato profondamente modificato dalla legge n. 127/1997
(Bassanini-bis): questa aveva di fatto provveduto ad eliminare i controlli di
merito e a ridurre quelli di legittimità solo a pochi atti specificamente e
tassativamente indicati. Ma l’abrogazione più importante è quella dell’art. 130
Cost. che si occupava dei controlli operati dalla Ragione: la norma prevedeva
infatti la presenza del CO.RE.CO., organo regionale di controllo cui dovevano
essere inviati tutti atti degli enti locali minori. Acceso dibattito è quello
che si è aperto in merito alla permanenza di detto organo e al suo ruolo nel
nuovo assetto ordinamentale dopo l’abrogazione dell’art. 130: molti sostengono
che non è più necessario prevedere la sua presenza, altri ne affermano una
diminuzione di poteri riconoscendo una residua competenza consultiva
dell’organo stesso, altri, infine, ritengono che il venir meno delle previsione
costituzionale non necessariamente debba determinare la scomparsa dell’organo
di controllo. Sta di fatto che in molte Regioni non è più presente tale organo,
nemmeno con poteri consultivi, mentre alcuni atti che in precedenza venivano
sottoposti al suo controllo (parliamo di atti concernenti i bilanci degli enti
locali) sono oggi inviati al Prefetto in quanto questo rappresenta l’unico
mezzo per determinare un possibile intervento sostitutivo da parte dello Stato
in caso di dissesto.
L’art. 127
Cost. (art. 8 della legge costituzionale n. 3/2001) regolava il controllo del
Governo sulle leggi regionali: detto controllo era esercitato in via preventiva
tramite un visto che il Commissario di Governo doveva apporre su ogni legge
approvata dal Consiglio regionale; il visto poteva essere rifiutato nel caso in
cui il Governo ritenesse che la legge controllata eccedesse la competenza della
Regione o si ponesse in contrasto con gli interessi nazionali o con quelli di
altre regioni. In quest’ultimo caso il Consiglio regionale poteva comunque
approvare la legge con maggioranza assoluta dei suoi componenti; al Governo
restava la possibilità di adìre la Corte Costituzionale (per motivi di
legittimità, conflitto di competenza), o le Camere (per motivi di merito,
contrasto con gli interessi nazionali), entro 15 giorni dalla comunicazione
della delibera del Consiglio. Tale disposizione è stata totalmente riscritta
dalla legge di riforma, in coerenza con la maggiore autonomia riconosciuta alle
Regioni: il Governo può intervenire solo nel caso che la legge ecceda la
competenza regionale, e non più quindi per i motivi di merito individuati nel
contrasto con gli interessi nazionali o di altre regioni; il controllo non è
più preventivo, ma successivo (sessanta giorni dalla pubblicazione della
legge), di modo che la legge deliberata dal Consiglio sarà immediatamente
efficace ed esecutiva, salvo una sua abrogazione da parte della Corte
Costituzionale. Non si dovrebbe più parlare di controllo in senso tecnico,
poiché il Governo si limita a sollevare un conflitto di competenza dinanzi alla
Corte Costituzionale attivando il giudizio di legittimità costituzionale in via
diretta. Nella stessa linea si pone il secondo comma dell’art. 127 Cost. che
prevede per la Regione il potere di impugnare direttamente innanzi alla Corte
Costituzionale le leggi statali che invadano la loro sfera di attribuzioni.
Infine
l’art. 132 e l’art. 133 disciplinano le modalità di creazione di nuove Regioni,
Province e Comuni: la distinzione sta nella natura della legge che dispone la
istituzione del nuovo ente ovvero legge costituzionale per la Regione, legge
ordinaria per la Provincia e legge regionale per il Comune.