C. 2144 - Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale
Presentato il 28
dicembre 2001
Onorevoli
Deputati! - Introduzione.
1. Le riforme fiscali possono
essere fatte per varie ragioni: per produrre più o meno gettito; per introdurre
imposte nuove o per eliminarne di vecchie; per (ri)modulare la progressività;
per rendere il sistema fiscale più efficiente o più neutro; per semplificarlo,
cercando di ridurre i costi di amministrazione e di adempimento; per adattarlo
ai cambiamenti che via via intervengono nella struttura della società e
dell'economia, o per concorrere a determinarli.
Generalmente, una riforma
fiscale profonda si fa per più di una, tra queste ragioni. Ad un certo punto,
molti Paesi scoprono che il sistema fiscale che li caratterizza, un sistema che
si è formato negli anni, non è più capace di raggiungere una quantità
sufficiente degli obiettivi desiderati.
I sistemi fiscali sono come i
giardini: hanno bisogno di potatura, di innesti, di cure costanti; talvolta di
un nuovo disegno.
Le riforme fiscali sembrano
seguire dei cicli. A periodi di intense riforme, come gli anni ottanta, si
alternano periodi, come buona parte degli anni novanta, caratterizzati da
scarso interesse alla riforma dei sistemi fiscali. Negli anni più recenti si
manifesta un nuovo attivismo: molti Paesi stanno nuovamente riformando, o
progettano di riformare, i loro sistemi fiscali.
Le riforme più recenti, in atto
od in progetto, hanno un carattere comune. La concentrazione essenziale
sull'ultima, tra le ragioni indicate sopra: sul necessario adattamento dei
sistemi fiscali nazionali ad un mondo sempre più aperto e globalizzato: un
mondo in cui il capitale e l'impresa non hanno più frontiere. Un mondo tanto
nuovo e globalizzato che anche il lavoro, fattore produttivo un tempo poco
esposto alla "concorrenza" - almeno in Europa - ora sente,
direttamente od indirettamente, in positivo od in negativo, ma comunque in
forma sempre più intensa, gli effetti della competizione internazionale.
In realtà, in un mondo
globalizzato, il "particularisme" fiscale non è solo
impossibile. E' dannoso. In un mondo globalizzato, il sistema fiscale di un
Paese "deve" infatti essere, quanto più possibile, omogeneo ai sistemi
fiscali degli altri Paesi. E questo non è un giudizio di valore. E' un dato di
fatto.
In uno scenario sempre più
globalizzato, la necessaria standardizzazione, la relativa crescente neutralità
dei sistemi fiscali, il loro minore possibile grado di interferenza nelle
decisioni delle persone e delle imprese, sono obiettivi politici essenziali.
Pretendere l'opposto, non è solo inutile, è peggio. E', si ripete, negativo e
distorsivo.
Con una specifica. L'etica
politica, ancora necessaria per le scelte fiscali, non è venuta meno. Nessuna
forza spinge l'etica fiscale nel vortice della globalizzazione. Molte forze la
stanno piuttosto spostando, progressivamente, dal livello nazionale al livello
sopranazionale.
Esempi di questo processo evolutivo
e progressivo si trovano tanto nella "Tobin Tax", proposta
dalla sinistra, quanto nella "De-Tax" (o "A-Tax"),
proposta qui in alternativa, e comunque già entrata, su nostra iniziativa, nel
circuito tecnico-politico internazionale (European Commission. Responses to
the chances of globalization. European Report: "More recently, a
more voluntary scheme ("de-tax") has been proposed as an alternative
source of financing").
Non solo. Tra gli obiettivi più
attuali delle riforme fiscali, c'è l'obiettivo della semplicità. Sempre di più,
un sistema fiscale poco comprensibile si configura come un sistema fiscale non
buono. E tra l'altro non competitivo.
E' più o meno così, nel caso
dell'Italia.
2. Si è in specie notato appena
qui sopra che, nel tempo presente, le "raison d'etre" di una
riforma fiscale sono varie: ragioni di gettito, di equità, di efficienza e di
neutralità, di semplicità, di omogeneità verso l'estero, di modernità e di
competitività.
In questa logica si possono fare
alcune verifiche, all'interno del caso Italia. Nei termini che seguono.
A)
IRPEF. L'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) è, all'interno del
sistema fiscale italiano, l'imposta principale, tanto quantitativamente, quanto
politicamente. Ebbene, si può dire che, pur dopo la "riforma" operata
nella scorsa legislatura, l'IRPEF è un'imposta che quantitativamente e
qualitativamente soddisfa le ragioni normali tipiche di una buona imposta?
Quantitativamente, si direbbe
di no. L'onere è in effetti eccessivo. E' un'opinione fortemente generalizzata.
Lo si può verificare, tra l'altro, leggendo "Il programma dell'Ulivo
per il governo 2001/2006" (www.Rutelli2001.it), pagine 55-57. E'
un'opinione che condividiamo.
Qualitativamente, si può
ripetere lo stesso ordine di considerazioni negative. L'IRPEF si basa infatti
su 5 aliquote. Le deduzioni e detrazioni previste nell'"Unico 2001"
sono oltre 80, con migliaia di possibili conseguenti combinazioni.
Tutto ciò significa che, a
differenza degli altri Paesi evoluti, in Italia non c'è un "tax
rate" oggettivo, ma piuttosto un "tax rate"
fortemente soggettivo, variabile da caso a caso in combinazioni di cifre che si
manifestano nella forma di assurde complessità.
La via della matematica
finanziaria alla giustizia sociale, l'utilizzo della "complessità"
per il raggiungimento di obiettivi "equitativi", mirati con
precisione millimetrica, non può in realtà produrre effetto diverso da una
complessità fiscale incrementale.
Basti qui notare che le
modifiche apportate, dalla legge finanziaria per il 2000, agli articoli 10, 12,
13 e 13-bis del testo unico delle imposte sui redditi, si sono
manifestate in circa 30 commi.
E' l'esatto opposto di ciò che
suggeriscono la politica legislativa ed il buon senso, considerando il fatto
che la dichiarazione dei redditi la devono compilare i cittadini.
Se il mondo si complica, se la
crescente complessità è la cifra dominante dell'esistente, allora la
legislazione deve andare in controtendenza. Non deve aggiungere alle
complessità del reale nuove complessità artificiali. Ma, all'opposto, e quanto
più possibile, deve semplificare.
B)
IRPEG-IRAP. Si può dire che l'imposizione sui redditi di impresa, come è stata
riformata nella scorsa legislatura, integra ad un livello sufficiente una o più
delle ragioni normali tipiche di una riforma fiscale?
Pare piuttosto difficile
sostenerlo. La coppia imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG)
imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) si basa infatti su 4
aliquote e, pur dopo il congelamento di DIT, super-DIT, eccetera, si basa su
combinazioni di "tax rate" che variano "in continuum",
come in un caleidoscopio.
Variazioni che non si manifestano
solo in funzione del livello di reddito, ma anche: 1) in funzione della
capacità patrimoniale dei soci e, per converso, in funzione del pregiudizio
contro il debito, anche nei casi normali, in cui la capacità di debito è
fisiologicamente e non patologicamente espressa dalla capacità di credito
propria dell'impresa; 2) in funzione della natura propria dei fattori
utilizzati nel processo produttivo, con pregiudizio fondamentale contro la
manodopera, nella logica: più occupazione = più imposta; più robot= meno
imposta; 3) in funzione delle più curiose politiche di bilancio: prima si
favorisce la capitalizzazione; poi si favorisce asimmetricamente l'opposto e
cioè la decapitalizzazione, premiando il "pay out" operato
dalla società, con un credito di imposta riconosciuto a favore dei soci verso
imposte non pagate dalla società; e così via.
Una logica in cui non è la
fiscalità che si applica alla realtà. Ma l'opposto, dirigistico o favoristico:
è la realtà che dovrebbe adattarsi alla fiscalità. La "logica" di
IRPEG-IRAP è, in specie, quella del primato della sovrastruttura ideologica
sulla struttura produttiva. A parità di struttura produttiva reale, la
fiscalità varia in funzione di fattori erratici, prevalentemente ideologici. E
ciò tanto nel confronto tra imprese operato "Italia su Italia",
quanto nel confronto tra imprese operato "Italia versus
estero".
L'effetto sostanziale è così
quello dell'"evoluzione divergente" della fiscalità italiana,
rispetto alla fiscalità in essere negli altri Paesi competitori; e dunque di un
crescente spiazzamento differenziale competitivo, contro il nostro Paese.
C)
Il caso dell'imposizione sui redditi di capitale. Nella scorsa legislatura, il
sistema della fiscalità finanziaria è stato oggetto di notevoli interventi, in
gran parte fondati sulle linee guida esposte nel "Libro bianco"
per la riforma fiscale, presentato nel dicembre 1994 dal primo Governo
Berlusconi. A partire dall'idea dell'imposizione sostitutiva "per
masse", presso gli intermediari istituzionali. Idea questa
contrastatissima, quando fu proposta, proprio dai successivi legislatori.
Tuttavia, permangono ancora
vistose inefficienze e grossi differenziali negativi.
In particolare, il sistema
fiscale riserva ancora, ed assurdamente, il trattamento più oneroso proprio
alle forme più povere di impiego del risparmio: a depositi e conti, bancari e
postali.
Per contro, lo stesso sistema
non ha impedito la crescita esponenziale di un fenomeno profondamente negativo,
come quello costituito dalla migrazione dei capitali all'estero. Migrazione che
costituisce la principale ragione della fortissima asimmetria in essere,
evidente in rapporto alla realtà strutturale tipica degli altri Paesi europei,
tra 1) dimensione del prodotto interno lordo italiano; 2) propensione al
risparmio degli italiani; 3) sottodimensione del sistema bancario e finanziario
italiano.
Vanno ancora aggiunte le
distorsioni prodotte dal troppo complesso, e perciò costoso, sistema di calcolo
degli imponibili. Come, ad esempio, nel caso del fantastico
"equalizzatore".
In sintesi, si tratta di un
sistema che cumula ingiustizie distributive, inefficienze competitive,
assurdità applicative.
D)
Infine, il caso della legislazione fiscale. Il volume complessivo delle leggi
fiscali in vigore non è quantificabile.
Per avere un'idea
dell'"orgia legislativa", è sufficiente considerare che nel solo
quinquennio 1996-2000 sono stati emanati, in materia fiscale, almeno 300
provvedimenti "legislativi".
E' evidente che non bastano, in
questo scenario, le regole sulla "scrittura" delle leggi fiscali che
sono state da ultimo introdotte dal pur considerevole "Statuto del
contribuente".
E' piuttosto necessario
intervenire, ed in modo radicale, sui "moltiplicatori" delle leggi.
Ed in specie è necessario intervenire sui meccanismi che favoriscono la
proliferazione incontrollata delle norme, provocando la "paralisi per
analisi" del sistema fiscale. Serve un "codice".
1. Articolo 1. - La riforma.
1.1. Quello esposto appena qui
sopra è lo scenario in cui si pone il nostro schema di riforma fiscale. Si
tratta di una "bozza aperta". Aperta a tutti i suggerimenti ed
emendamenti che, via via, saranno formulati.
Ma sia consentito un
"flashback".
Il 18 dicembre 1994 fu
pubblicato il "Libro bianco" sulla riforma fiscale in Italia. Un
volume che sintetizzava un lungo ciclo di studi e che rappresentava, tra
l'altro, il tentativo (fortemente anticipatore, sette anni fa) di modernizzare
la fiscalità di uno Stato-nazione, dopo l'avvento dell'economia-mondo.
In specie ed all'essenziale, i
princìpi ispiratori di quella (ipotesi di) riforma fiscale erano:
a)
dal complesso al semplice: 8 tasse, un solo codice fiscale. Ciò perché, se le
strutture dell'esistente si complicano, le strutture giuridiche devono andare
in controtendenza, verso la concentrazione e la semplificazione;
b)
dalle persone alle cose: erosa la sua base di potere originaria (il dominio
territoriale chiuso, esercitato sulla ricchezza dello Stato-nazione), l'imposta
personale progressiva, se applicata tel quel, finisce per produrre
effetti sostanziali opposti rispetto a quelli ideali. In specie, la ricchezza
"affluente" sfugge, perché mobile. E perciò, la
"progressività" classica finisce per insistere regressivamente sui
fattori immobili (salari, pensioni, eccetera). In questo scenario, la
progressività, principio morale fondamentale e costituzionale, non può essere
rimossa tout court. Va piuttosto ricostruita, in altre forme,
tendenzialmente spostando l'asse del prelievo su altri, più oggettivi e
stabili, punti di prelievo. In modo da produrre effetti equivalenti o analoghi
rispetto a quelli prodotti dalla progressività, nella sua forma originaria;
c)
dal centro alla periferia: un federalismo fiscale basato sul principio politico
del budget, con i cittadini che, nei vari livelli in cui si articola
l'attività di governo, non più centralizzata in forma monopolistica, possono
votare direttamente e congiuntamente su entrate e su uscite. Facendo coincidere
quanto più possibile, ad ogni livello di governo, la cosa tassata con la cosa
amministrata. L'idea del "budget", alla Tocqueville.
Le reazioni furono diverse.
Positiva e sia qui consentito
notarlo straordinariamente significativa, fu ad esempio quella del professor
Carlo M. Cipolla: "(...)questa lettera è, e vuole essere, una nota di
incondizionata ammirazione ed approvazione per il piano (...) presentato per la
riforma del sistema e del regime fiscale in Italia. Trovo ammirevole non
soltanto l'aspetto tecnico del (...) piano, ma anche il coraggio (...)
dimostrato nel presentare il piano stesso, così drastico, così
rivoluzionario".
Ci fu anche polemica politica.
E poi un curiosum. Alcune delle idee espresse nel "Libro
bianco" (dall'accertamento con adesione, ai vari meccanismi di
deflazione del contenzioso, dall'idea della progressività per età, alla
tassazione "per masse" del risparmio, eccetera), sono state prima
violentemente contestate, ma poi invece riprese, nel corso della successiva
legislatura (anche se non ci sentiamo di assumere la completa paternità della
loro applicazione tecnica).
Ebbene, l'impianto di questa
nostra riforma riparte proprio da quello del 1994, pur attualizzandolo ed
adattandolo, in funzione dei mutamenti nel frattempo intervenuti, nell'economia
e nella società.
1.2. In generale, un
sistema fiscale fatto di poche imposte, applicate con aliquote basse su ampie
basi imponibili, integra congiuntamente i presupposti della neutralità e della
semplicità, dunque della modernità di un sistema fiscale.
Tutti questi princìpi guidano
questa riforma. Una riforma che si concentra su poche imposte, 5 in particolare;
amplia le basi imponibili; riduce il numero delle aliquote al più basso livello
compatibile con le necessità del gettito; semplifica il sistema e le procedure;
introduce più neutralità e più equità.
I punti politici che
essenzialmente caratterizzano questa riforma sono quattro e si articolano come
segue.
A)
Viene qui riformata solo la fiscalità "statale". Ciò a causa del
nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, come
"novellata" dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Nel nuovo testo costituzionale,
la nuova architettura della finanza pubblica è fatta in specie dipendere:
(i) dalla preventiva identificazione della fiscalità statale e (ii) dall'iniziativa
legislativa statale.
In questo contesto, la riforma
fiscale statale non esclude e non interferisce con una riforma mirata al
federalismo fiscale. Ne è anzi il presupposto necessario. Per due ordini di
ragioni: 1) per una ragione sistematica: per garantire i flussi di
"compartecipazione"; 2) per una ragione politica: per garantire
strutturalmente l'alimentazione del fondo di "perequazione".
Data questa sequenza, il
federalismo fiscale può dunque essere sviluppato solo in parallelo ed in
progressione, rispetto alla riforma del sistema fiscale statale. Non è una
scelta politica. E' ciò che deriva dall'assetto costituzionale attuale.
L'impegno del Governo è in
specie, in questi termini, nel senso di una stretta consequenzialità, logica e
cronologica, tra la riforma fiscale statale e l'introduzione del
"federalismo fiscale". Questo da sviluppare dunque in coerenza di
tempo ed "insieme" con i soggetti politici che devono esserne (ne
sono) protagonisti.
B)
Viene qui realizzato il programma elettorale della "Casa delle libertà".
Realizzato integralmente, anche se gradualmente, dato lo stato non positivo dei
conti pubblici, prodotto dal lungo ciclo elettorale che ha preceduto le
elezioni del maggio 2001. E compatibilmente con le criticità che si sono
manifestate, all'interno dell'economia mondiale, a causa del terrorismo
internazionale.
Il "contratto con gli
elettori", un contratto "per la legislatura", sarà dunque
realizzato.
Con una specifica. La ragione
per aliquote IRPEF più basse non è solo una ragione "economica" (più
"sviluppo"). E' anche una ragione "politica" ("più
libertà").
Il rapporto tra fiscalità e
libertà, come si sviluppa in questa riforma, è in particolare coerente con gli
orientamenti costituzionali recentemente espressi dalla Corte di Karlsruhe (la
Corte costituzionale tedesca).
E' anche su queste basi (basi
di libertà) che è costruita la nostra idea di riforma dell'imposta personale.
C)
Viene iniziato, a partire dall'idea della codificazione, un processo di radicale
"semplificazione" del rapporto fiscale. Un processo che, insieme ad
una vastissima gamma di altri interventi, è comunque già stato avviato, nei
primi "100 giorni" di attività del Governo. Ancora: più semplicità,
uguale più libertà.
D)
Non solo viene radicalmente modernizzata e resa competitiva la fiscalità dei
capitali e delle imprese, ma trova spazio crescente la "dimensione
etica": favore per la famiglia, per il "non-profit" ed il
volontariato, introduzione della "De-Tax" (o
"A-Tax"), sotto forma di detassazione dell'1 per cento dei
consumi liberamente destinati dai cittadini per finanziare attività eticamente
meritevoli.
A questo proposito, va in
specie notato quanto segue.
La "Tobin Tax"
(TT), l'ultimo simbolo ammesso nel Pantheon teoretico della sinistra,
può essere non solo discussa, ma anche gentilmente detronizzata. E, alla fine,
sostituita dal suo opposto: da una non-tassa, con finalità etica equivalente.
Da una "De-Tax" (DT).
La critica più forte che va
fatta alla TT non è una critica economica, espressa "dal lato del
mercato".
E' una critica politica. La TT
è infatti progettata come una macchina fiscale "internazionale",
destinata a funzionare "a circuito chiuso", dentro il rarefatto
dominio dell'"amato-odiato" mercato finanziario.
Una macchina che dovrebbe
essere dirigisticamente governata da un non precisamente identificato
"ufficio" etico, che dovrebbe avere competenza a riscuoterla ed a
dirigerne i flussi verso finalità meritevoli pianificate.
Nella storia, una sola macchina
fiscale ha in realtà funzionato con efficienza e su vasta scala, fuori dai
confini di uno specifico potere sovrano: in Europa, la Chiesa romana.
"Christus-fiscus",
"Fiskus-Kirche", sono le formule che, per tutti i secoli dell'età
confessionale, hanno sintetizzato il meccanismo di funzionamento di un'unica
colossale e capillare macchina fiscale.
Ma con una caratteristica
specifica. Nell'economia confessionale, prima veniva l'offerta, poi la domanda.
Prima l'"al di là", poi le "decime".
Nell'economia politica della TT
dovrebbe invece essere l'opposto: l'invenzione della tassa dovrebbe precedere
l'identificazione del servizio da finanziare, la funzione prescindere
radicalmente dalla volontà popolare, la tassa legittimare di per sé la
funzione.
Per riscuotere la TT sarebbe in
specie sufficiente un dato grado di dispotismo illuminato. Per erogarne il
gettito, sufficiente creare un "Politburo" etico.
In sintesi, la TT pare dunque
viziata da un insanabile "deficit" democratico.
Il principio fondamentale della
democrazia è "No taxation without representation". La
TT è democraticamente inaccettabile, perché radicalmente priva di una constituency
democratica.
La DT, di cui qui si formula la
presentazione politica, funzionerebbe così:
a)
tutti i soggetti che, sul mercato, vendono beni o servizi (negozi,
supermercati, eccetera), possono liberamente attivarsi per sviluppare od
aderire ad iniziative etiche, private o pubbliche, speciali o generali,
nazionali od internazionali (lotta a fame e malattie, sostegno allo sviluppo,
eccetera);
b)
se lo fanno, possono offrire ai loro clienti uno "sconto" dell'1 per
cento sul prezzo dei loro beni o servizi;
c)
a condizione che il cliente trasformi lo sconto in una "offerta",
sottoscrivendo a favore di una tra le iniziative etiche in cui si è impegnato
il venditore;
d)
per suo conto, lo Stato rinunzia a tassare lo sconto-offerta così strutturato e
si riserva solo una funzione residuale di controllo anti-frode.
La DT è dunque l'esatto opposto
della TT. Non è una tassa, ma una non-tassa. Non solo. Tanto è autocratica la
TT, quanto è democratica la DT. Perché il suo campo di applicazione non è
limitato al mercato finanziario, ma esteso a tutti i consumi. Perché non è
riscossa ed amministrata da un ufficio, ma autogestita da una platea
potenzialmente sconfinata di soggetti privati.
In questi termini, la DT ha chance
reali per configurarsi come leva decisiva, per rilanciare nel dominio etico la
grande sconfitta del secolo del "welfare": la
"filantropia".
Le possibili critiche alla DT,
ad esempio le possibili confusione ed ibridazione tra motivazioni diverse,
insieme commerciali ed etiche, possono essere in specie stimate enormemente
inferiori rispetto alle sue potenzialità.
Non si deve temere che si
manifestino confusioni od ibridazioni, tra motivazioni commerciali e
motivazioni etiche.
Il consumatore sceglie infatti
beni e servizi in funzione delle esigenze e preferenze che questi soddisfano.
Esigenze e preferenze che possono essere egoistiche, ma anche altruistiche.
Soltanto una visione ristretta
del comportamento dell'"homo oeconomicus" può indurre a
credere il contrario. Non vi è quindi nulla, né di eticamente, né di
economicamente scorretto, nel fatto che l'offerta soddisfi congiuntamente
esigenze e preferenze diverse.
Affermare il contrario sarebbe
un falso moralismo, che non considera come, in materia di imposizione (e, più
in generale, in materia di politiche pubbliche) il corretto criterio è quello
dell'"etica delle conseguenze", non quello dell'"etica delle
intenzioni".
Inoltre, la DT corrisponde in
pieno al principio di sussidarietà.
La DT sposterebbe infatti dallo
Stato ai cittadini la responsabilità per una serie di iniziative e di servizi
che non sono di mercato. Se è vero, come è vero, che il principio fondamentale
di ripartizione dei poteri e delle competenze all'interno dell'Unione europea è
costituzionalmente quello della sussidiarietà orizzontale e verticale, allora
la DT corrisponderebbe perfettamente allo spirito dell'Europa.
2. Articolo 2. - La codificazione fiscale: "e pluribus unum".
2.1. La legislazione fiscale
italiana ha raggiunto un livello quasi assoluto di complessità. Tanto da
escludere l'efficacia di nuovi interventi correttivi più o meno puntiformi,
comunque "interni" alla massa legislativa. Tanto è infatti elevato il
livello di complessità intrinseca del sistema, che questi sarebbero, peggio che
inutili, dannosi.
Si può formulare più o meno lo
stesso ordine di considerazioni negative, in ordine all'ipotesi alternativa di
tentare una "manutenzione" della normativa esistente. Ad esempio,
mirando al suo consolidamento in "testi unici", con l'obiettivo
dell'eliminazione di duplicazioni o del chiarimento di significato delle norme
controverse. Dopo un po', i testi unici non sarebbero più "unici".
Infine, non sarebbe di per sé
risolutiva (pur se parzialmente, potenzialmente positiva) neppure la scelta
della "delegificazione".
Delegificando non si ottiene
infatti una riduzione della complessità, ma solo la sua traslazione dal piano
della legge a quello del "regolamento".
Con la delegificazione cambia
la proporzione tra norme primarie e norme secondarie, ma il sistema, nel suo
complesso, non diventa più semplice. In assenza di una riforma di struttura
dell'ordinamento, l'operazione di delegificazione potrebbe dunque rivelarsi
come un'operazione a somma zero: si demoltiplicano le leggi ma,
correlativamente, si moltiplicano i regolamenti.
Non solo. Fare o rifare un
regolamento è più facile che fare o rifare una legge. Il meccanismo di
produzione dei regolamenti è infatti più flessibile. Cresce, di conseguenza, il
rischio che in questo modo sia proprio la delegificazione ad incrementare la
produzione normativa.
2.2. E' per questo che serve
qualcosa di diverso. Serve un "codice". Perché è necessario uscire
dall'esistente, sostituendo al movimento centrifugo, che ha determinato
l'indiscriminata moltiplicazione della produzione normativa, un movimento
centripeto, che tenda alla creazione di un polo di attrazione unificante.
Come il sistema fiscale cambia,
nella sua "sostanza" economica, anche per effetto della riforma, così
deve cambiare nella sua "forma" giuridica. Forma e sostanza devono
trovare un nuovo piano di coincidenza.
Sul piano sostanziale, il
passaggio dal complesso al semplice viene operato unificando, per blocchi di
vecchie imposte, l'articolazione dei loro elementi essenziali e delle relative
procedure. Ne deriva, a cascata, un effetto automatico di semplificazione.
Parallelamente, sul piano
formale, il passaggio dal complesso al semplice va operato con l'entrata in
vigore di un unico codice.
2.3. Qui in specie si configura
l'ipotesi di un "codice": 1) nel senso "tecnico", di legge
ordinaria unificata da uniformi scelte metodologiche; 2) nel senso
"politico", di legge "autostabilizzante", più certa e più
duratura; 3) nel senso "formale" ("morfologico"), di luogo
di trasformazione di norme non coordinate e redatte secondo mutevoli standard
qualitativi, in norme organiche, sistematicamente collegate tra loro e redatte
secondo criteri uniformi; 4) infine nel senso, "derivato dall'illuminismo
giuridico", di luogo di semplificazione, ossia di aggregazione di princìpi
e istituti, operata in base a scelte "razionali".
In sintesi, l'obiettivo
essenziale, nell'economia di questa operazione di politica legislativa, è
quello della certezza del diritto.
La certezza del diritto è
normalmente l'effetto di varie combinazioni di fattori, ma uno dei fattori
essenziali, per la certezza del diritto, è specificamente costituito proprio
dalla stabilità delle norme.
Per cominciare, è necessario
stabilire un rapporto tra legge e tempo. La legge deve durare nel tempo. E'
comune a tutte le civiltà giuridiche la consapevolezza del ruolo
"giuridico" del tempo: dai codici simbolici dell'antichità, incisi
nella roccia, al motto illuminista secondo cui "la legge, opera della
ragione, è una cosa solida e durevole".
La legge che non dura nel tempo
si svilisce, tradisce la sua essenza. Il tempo della legge fiscale dovrà,
dunque, essere tanto "lungo" da indurre, nel cittadino ottemperante,
la consapevolezza della legge.
Per questo è fondamentale
l'identificazione di princìpi fiscali, formalizzati da norme fiscali di
principio.
La scelta a favore di una legislazione
fiscale derivata da (e basata su) princìpi è enunciata espressamente
nell'articolo 2 del presente disegno di legge delega. Il codice, come qui è
pensato e disegnato, non si limita infatti a raccogliere le norme vigenti, ma
"ordina" l'imposizione fiscale sulla base di princìpi generali:
a)
la legge disciplina gli elementi essenziali dell'imposizione, nel rispetto
essenziale dei princìpi di legalità, di capacità contributiva, di uguaglianza.
I princìpi costituzionali sono il quadro in cui si iscrive la codificazione
fiscale. In particolare, il principio di legalità, stabilito dall'articolo 23
della Costituzione, e concretizzato dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, costituisce il parametro per la definizione della base legislativa
"necessaria" dell'imposizione. Su questa base costituzionale, il
riferimento agli elementi "essenziali" della disciplina traccia un
confine mobile e/o dinamico, tra norme primarie e norme secondarie, perché
consente di attrarre nell'ambito del codice ogni elemento ulteriore che si
ritenga di riservare alla legge. Lo spazio della (eventuale, residuale)
delegificazione non è così predeterminato in modo rigido;
b)
viene enunciato espressamente il principio di adeguamento delle norme fiscali ai
princìpi fondamentali dell'ordinamento comunitario e di rispetto degli obblighi
derivanti dai trattati internazionali. Più in dettaglio, per ciò che si
riferisce ai trattati internazionali, la norma è stata formulata ripetendo il
testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218, recante la
riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. Viene così
salvaguardato il principio del pieno rispetto degli obblighi internazionali da
trattato, già inseriti nell'ordinamento in funzione delle procedure di
adattamento utilizzate (ordine di esecuzione od altro). Ne consegue che le
disposizioni del codice non possono essere interpretate in senso novativo;
c)
i princìpi di chiarezza, semplicità, conoscibilità effettiva e irretroattività
delle norme fiscali vengono riscritti e trasferiti, dalla sede debole
costituita dal cosidetto "Statuto dei diritti del contribuente",
verso l'alto, direttamente nel codice. Si tratta di princìpi sulla produzione
normativa. E dunque di princìpi che disciplinano i profili formali della
"fabbrica della legge". Le norme fiscali non devono essere soltanto
chiare, cioè comprensibili. Per il contribuente, l'accessibilità delle norme
fiscali dipende anche dalla loro semplicità, cioè dalla loro riduzione ai
termini minimi, essenziali. Non solo: le norme fiscali devono essere
conoscibili. Non ci si riferisce qui alla conoscibilità astratta della legge,
che è assicurata dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ma anche
alla conoscibilità concreta, effettiva della legge. La conoscibilità effettiva
può essere agevolata dall'uso dei mezzi di informazione. L'informazione deve
essere al servizio della conoscibilità della legge. La conoscenza effettiva
della legge è conforme ad un ideale di democrazia compiuta. Bisogna evitare -
come scriveva Hegel - che le leggi: "siano appese così in alto da non
poter essere lette". Non solo. La conoscibilità effettiva della legge
dipende soprattutto dalla struttura e dalla stabilità delle norme fiscali: con
la codificazione, le norme fiscali diventano meno numerose, più semplici e più
stabili, e conseguentemente è più facile conoscerle. Infine, le norme fiscali
non devono essere retroattive. La retroattività, infatti, affievolisce la
certezza del diritto, perché pregiudica la stabilità del diritto e impedisce al
soggetto di calcolare le conseguenze delle proprie azioni, azzerandone la
prevedibilità. Per questo motivo, si intende l'irretroattività in senso ampio,
come divieto tanto delle norme fiscali retroattive "proprie", quanto
delle norme che modificano la disciplina delle imposte periodiche con effetto
dal periodo d'imposta in corso;
d)
è vietata la doppia imposizione giuridica. Il divieto di doppia imposizione è
una conseguenza necessaria dei princìpi di uguaglianza nell'imposizione e di
giustizia fiscale. Qui il divieto viene assunto nella sua accezione più ampia,
comprensiva della doppia imposizione interna e della doppia imposizione
internazionale. Per quest'ultima, il divieto ha un effetto impegnativo per lo
Stato, nel senso della predisposizione di tutti gli strumenti idonei a
garantire i propri contribuenti. Sotto questo profilo, il divieto è del tutto
conforme ai princìpi comunitari. L'articolo 293 del Trattato istitutivo della
Comunità europea indica infatti come obiettivo specifico l'eliminazione della
doppia imposizione fiscale all'interno della Comunità;
e)
il divieto di applicazione analogica delle norme fiscali non è assoluto, ma
relativo. E ciò in coerenza con il principio costituzionale di legalità,
secondo cui non vi può essere imposizione senza legge. L'applicazione analogica
è vietata espressamente solo per le norme che stabiliscono i presupposti
soggettivi ed oggettivi dell'imposizione, le esenzioni e le agevolazioni;
f)
in coerenza con il recepimento, nel nuovo codice, tra l'altro, dei princìpi
generali già contenuti nello Statuto del contribuente, vengono indicati, tra i
princìpi di codificazione, quelli relativi alla tutela dell'affidamento e della
buona fede nei rapporti tra contribuenti ed amministrazione fiscale. Per lungo
tempo, i rapporti tra fisco e contribuenti sono stati basati sulla reciproca
diffidenza (aggravata dalla più generale diffidenza del legislatore nei
confronti di entrambi). Un assetto che certo non ha contribuito ad elevare il
grado di civiltà proprio del sistema fiscale italiano. In questo contesto, la
codificazione del principio di tutela dell'affidamento e della buona fede non
costituisce dunque solo una affermazione, ma pone le basi per un rinnovato
"rapporto fiscale", rispetto al quale l'idea stessa di codice
costituisce un elemento fondante;
g)
dal complesso al semplice, dalla molteplicità all'unità: "e pluribus
unum". Con la codificazione, l'attuale frammentazione e moltiplicazione
di regimi e di status viene sostituita da predicati giuridici unificanti
ed unificati: il soggetto, l'obbligazione fiscale, la sanzione amministrativa,
la sanzione penale, il processo. A ciascuno di questi predicati giuridici
corrisponde una disciplina unitaria, comune a tutte le imposte. Il processo di
unificazione, tipico di un codice, si sviluppa in una logica sistematica: i
princìpi e gli istituti vengono disposti organicamente, in modo che ognuno
trovi rispondenza in princìpi superiori di carattere generale. Di conseguenza,
le norme che disciplinano le singole imposte, pur esprimendone le specificità,
devono essere sistematicamente riconducibili ai princìpi ed ai predicati
giuridici contenuti nella parte generale del codice;
h)
l'imposta consiste nell'imposta. Questa formula è solo apparentemente ovvia. Il
sacrificio che può essere imposto al contribuente, in base all'articolo 53
della Costituzione, consiste infatti solo nella prestazione pecuniaria, non
nell'imposizione di oneri e corvées addizionali ed accidentari. Per
questo motivo, si enuncia espressamente il principio della minimizzazione del
sacrificio del contribuente nell'adempimento di tutti gli obblighi formali e di
pagamento. Essendo rapportata al sacrificio del contribuente, la minimizzazione
è ad ampio campo: non va limitata al profilo economico, ma deve essere estesa
agli aspetti logistici, psicologici, eccetera, dell'adempimento. Ciò significa
porre il contribuente al centro del sistema: deve essere il sistema fiscale a ruotare
intorno al contribuente, non il contribuente a rincorrere le complessità
superflue del sistema fiscale;
i)
la disciplina delle sanzioni fiscali amministrative ha di recente formato
oggetto di un'ampia riforma, i cui contenuti hanno però in alcuni casi dato
luogo a notevoli criticità e difficoltà applicative. Un punto, su tutti, ha
mostrato, e fin dall'inizio, le notevoli criticità prodotte dalla riforma. Si
tratta, in specie, del principio di personalità della violazione, in base al
quale la sanzione fiscale amministrativa dovrebbe sempre essere applicata nei
confronti della persona fisica cui è riferibile la violazione contestata. Ciò
anche nel caso in cui il contribuente che ha tratto vantaggio dalla violazione
commessa sia una persona giuridica. E' questa una, e non marginale, causa di
spiazzamento competitivo negativo del nostro Paese, a vantaggio degli altri
Paesi competitori, che non conoscono norme simili. Le distorsioni prodotte da
un approccio "ideologico" di questo tipo sono evidenti, anche in
considerazione del fatto che le sanzioni fiscali sono in genere commisurate
all'imposta evasa; non a caso anche la disciplina vigente prevede una serie di
complessi ed articolati temperamenti, rispetto al principio della personalità
della violazione. Per eliminare ogni ambiguità applicativa (senza peraltro
ridurre la valenza "intimidatoria" propria delle sanzioni), la
codificazione delle sanzioni fiscali amministrative si informa al principio di
concentrazione della sanzione sul contribuente (sia esso persona fisica o
giuridica) che ha tratto "effettivo beneficio" dalla violazione. Ciò
anche per ripristinare una stretta connessione tra punizione ed indebiti
vantaggi connessi all'evasione fiscale, in modo coerente con la disciplina sulla
responsabilità delle persone giuridiche per alcuni reati, recentemente
introdotta dal decreto legislativo n. 231 del 2001;
l)
anche la disciplina delle sanzioni fiscali penali è stata di recente oggetto di
interventi riformatori, non del tutto razionali e coerenti. Va in particolare
notato che la rilevanza penale dell'evasione fiscale è (va) strettamente
connessa al danno prodotto all'erario (non a caso diverse figure di reato sono
punibili solo al superamento di soglie definite). In questo contesto, ferma
restando l'applicazione delle sanzioni amministrative nella misura prevista
dalla legge, pare razionale che sia esclusa la punibilità delle condotte che
"non" hanno dato luogo ad un effettivo danno erariale.
Su queste basi, si ritiene tra
l'altro coerente ed opportuno potenziare gli effetti penali di quei fatti
(essenzialmente riconducibili alle varie forme di definizione spontanea e/o
concordata degli accertamenti fiscali ) che - essendo idonei a rimuovere il
danno erariale - devono conseguentemente essere idonei a rimuovere o ridurre
anche la punibilità in sede penale. Ciò anche allo scopo di non svilire la
portata di istituti deflativi - quali il concordato e la conciliazione - che
sono essenziali per un efficiente funzionamento del prelievo fiscale. L'accesso
al concordato ed alla conciliazione non potrà comunque essere ammesso, in
presenza di fatti gravi e qualificati. E' per contro evidente che tutto ciò non
potrà ridurre, dovrà anzi determinare una maggiore attenzione alle forme più
gravi di evasione fiscale (si pensi ai delitti di falso e di frode).
Nel comma 2 dell'articolo 2 del
presente disegno di legge delega viene infine introdotto il principio della
deroga espressa per le disposizioni del codice, secondo le procedure
"rinforzate".
Non si tratta di una
"blindatura procedurale", per rendere immodificabili le norme
fiscali, ma di una sorta di meccanismo d'allarme.
Nella prospettiva della
maggiore stabilità del sistema fiscale, il principio della deroga espressa non
esclude, infatti, la modifica, ma la casualità e l'estemporaneità della
modifica. Come l'attività originaria di codificazione, così anche la successiva
"manutenzione" ed evoluzione delle norme del codice devono essere
operate nella logica del sistema.
3. Articolo 3. - La riforma dell'IRPEF.
3.1. L'imposta sul reddito.
L'articolo 3 riforma l'imposta
centrale nell'economia politica del nostro sistema fiscale: l'imposta personale
sul reddito delle persone fisiche. Questa diviene, semplicemente: imposta sul
reddito.
La riforma si concentra in
particolare su quattro elementi fondamentali dell'imposta: i soggetti passivi;
il campo di applicazione; il modo in cui si passa dalla base imponibile al
calcolo dell'imposta; le aliquote.
In particolare:
a)
soggetti passivi. Accanto alle persone fisiche, divengono soggetti passivi
di questa particolare imposta, e non più dell'IRPEG, le persone morali e gli
enti non commerciali. Questi soggetti acquisiscono così uno "status"
fiscale più coerente con la loro funzione sociale e l'IRPEG diventa, per
differenza, imposta sulle società. Sul modello della "Corporate
Tax", consolidato negli altri Paesi evoluti;
b)
campo di applicazione dell'imposta (imponibile). Si prevede un
incremento dell'imponibile soggetto ad imposta personale progressiva, per
effetto dell'inclusione di parte degli utili percepiti e delle plusvalenze
realizzate, fuori dall'esercizio di impresa, su partecipazioni societarie
qualificate. Restano invece fuori dal campo di applicazione dell'imposta sul
reddito i redditi di natura finanziaria, la prima casa, eccetera;
c)
determinazione dell'imponibile e calcolo dell'imposta. Attualmente
la sequenza di calcolo dell'IRPEF è articolata in 4 fasi:
calcolo
dell'imponibile;
deduzioni
dall'imponibile;
calcolo
dell'imposta;
detrazioni
dall'imposta.
Con la riforma si elimina la
quarta fase. Con la riforma si prevede in specie che le aliquote si applichino
dopo che la base imponibile è stata ridotta, via deduzioni basate sui valori
fondamentali di cui è prevista tutela nella Costituzione, tra cui domina un
minimo non imponibile stabilito in funzione della soglia di povertà. Le
deduzioni sono poi concentrate sui redditi bassi e medi, producendo in questo
modo un notevole effetto di progressività;
d)
aliquote. Si prevedono 2 sole aliquote: 23 per cento, fino a 100 mila euro
(200 milioni di lire); 33 per cento, oltre. Si innova dunque in profondità
rispetto all'attuale sistema a 5 aliquote, passando a: 1) uno "scaglione
ampio" di base (con estremo inferiore situato nel punto in cui le
deduzioni cessano di operare, ed estremo superiore, pari a 100 mila euro), su
cui si applica un'aliquota contenuta; 2) uno scaglione sul residuo (con estremo
inferiore pari a 100 mila euro ed estremo superiore pari all'imponibile
individuale dichiarato), su cui si applica un'aliquota pari a circa un terzo
del reddito, che diviene così il limite massimo del prelievo.
3.2. L'analisi politica di
questo nuovo "disegno" fiscale può essere articolata come segue:
a)
invertendo una tendenza in atto, viene razionalizzata e rafforzata la
progressività dell'imposta personale, in termini di rilievo specifico di questa
particolare forma di imposizione sulla progressività dell'intero sistema, che
costituisce un valore costituzionalmente riconosciuto con due movimenti:
1)
viene allargata la "base imponibile" su cui insiste la progressività.
In specie, in coerenza con lo standard europeo, la progressività viene
"estesa" includendo componenti di reddito (dividendi e "capital
gains" qualificati), che sono fortemente significative, in termini di
fondamento reale della "capacità contributiva";
2)
si opera un forte "trade-off", tra aliquote (che vengono
realmente ridotte) e deduzioni (che vengono modulate in funzione di una reale
progressività). Viene in questo modo introdotta una forma di progressività
fiscale molto più coerente ed integrabile con l'altra grande tecnica di
progressività nell'intervento pubblico, quella che prevede la modularità in
funzione crescente del reddito reale, per il pagamento di dati servizi pubblici
e per l'accesso a dati sussidi-trasferimenti. Ciò a favore dei redditi bassi e
medi effettivi;
b)
con lo "scaglione ampio" alla base, la progressività si concentra
sugli estremi della distribuzione del reddito. Sulla parte centrale, la
progressività delle aliquote tende in specie a ridursi, per effetto
dell'aliquota unica del 23 per cento, fino a 100 mila euro. Va in più
analiticamente notato che, sui redditi bassi e medi, la progressività delle
aliquote è sostanzialmente integrata dalla progressività delle deduzioni.
All'estremo opposto, sui redditi superiori a 100 mila euro, la progressività si
manifesta in due forme: con il passaggio all'aliquota superiore del 33 per
cento; con la sostanziale assenza di deduzioni. La combinazione della clausola
di salvaguardia con la meccanica delle deduzioni esclude in radice
"effetti scaletta". L'incidenza fiscale si riduce conseguentemente
per tutti i contribuenti. Lo "scaglione ampio" è coerente, tra
l'altro, con il modello inglese. Rispetto a questo si ha non solo similarità di
impostazione, ("scaglione ampio"), ma anche similarità nell'idea di
un'aliquota basica. La sfiducia in una progressività formale molto articolata
sulle classi medie è in specie condivisa da tutta la grande tradizione italiana
di scienza delle finanze (Antonio De Viti de Marco, Luigi Einaudi, Ezio Vanoni,
Sergio Steve), che contempera il principio della capacità contributiva con il
principio del beneficio. In specie, con il principio secondo cui l'imposizione
deve rendere al massimo l'idea della "cosa amministrata" che va a
finanziare. Risultato che si ottiene solo se la capacità contributiva e la
progressività dell'imposizione mirano alla "giustizia grossa"
(Einaudi), e non alla redistribuzione millimetrica tra redditi, seguendo la via
della matematica finanziaria alla giustizia;
c)
prima di procedere nell'analisi, e per prevenire la demagogia, va
fondamentalmente notato che l'aliquota del 23 per cento riguarderebbe il 99,5
per cento dei contribuenti (che sono 29,4 milioni: dati SOGEI, 1999). Si tratta
dunque, sostanzialmente, di quasi "tutto l'universo" dell'IRPEF!
Fuori, e "beneficiati" dall'aliquota del 33 per cento, resterebbero
invece solo 143.000 contribuenti, pari allo 0,5 per cento dei contribuenti! Non
ha dunque (non avrebbe) senso, in questo contesto, l'obiezione demagogica
secondo cui l'aliquota del 33 per cento sarebbe troppo bassa, producendo un
"favore per i ricchi". A parte che l'ipotesi di un'aliquota
addirittura unica e molto bassa è stata formulata proprio dalla Curia di
Milano, fuori dalla demagogia basta leggere le liste delle dichiarazioni
annuali dei redditi, pubblicate e presentate dai precedenti governi, come
simbolo dei loro sforzi legislativi ed amministrativi per una fiscalità
divenuta davvero giusta dopo tanti anni di governo, per prendere atto del fatto
che "i ricchi non sono più qui"; perché i redditi più affluenti hanno
natura diversa dai redditi normalmente soggetti all'IRPEF;
d)
con questa struttura impositiva scompaiono in radice le forme di progressività
e di "fiscal drag" che penalizzano sistematicamente la
"famiglia". Dato il nuovo disegno fiscale, piatto e tuttavia mirato
al sostegno della famiglia, "non" è dunque più tecnicamente
necessario il ricorso ai tradizionali rimedi anti-inflazione e pro-famiglia ("quoziente
familiare", eccetera). Infatti:
1)
lo "scaglione ampio" alla base, con aliquota basica del 23 per cento,
elimina alla radice e sostanzialmente ogni problema di "fiscal
drag", per la quasi totalità dei contribuenti;
2)
la concentrazione delle deduzioni sulla dimensione sociale, e qui a partire
dalla famiglia, e sulle famiglie, con redditi bassi e medi, trasforma
fortemente e proprio in favore della famiglia il sistema italiano
dell'imposizione personale. In specie, il soggetto principale di riferimento
non sarà più, come finora, l'individuo, con la famiglia come opzione; ma la
famiglia, come soggetto centrale, anche nell'economia fiscale;
e)
la nuova struttura dell'IRPEF mira, nella forma della riduzione delle aliquote
e della semplificazione, ad un nuovo rapporto tra "fiscalità" e
"libertà". In linea con il "decisum" della Corte
costituzionale tedesca, secondo cui il reddito deve essere tutelato, come
strumento per la libertà personale e il "risparmio fiscale" viene
prima dell'assistenza sociale (Steuerverschonung geht vor Sozialleistung).
La possibilità dell'auto-sostentamento è di conseguenza prioritaria, rispetto
all'assistenzialismo statale. Perché le risorse "ricevute" dallo
Stato (alias "concesse" graziosamente dallo Stato, sotto forma
di detrazioni ammesse) non comunicano lo stesso grado di libertà nell'uso delle
risorse autonomamente guadagnate. La Corte costituzionale tedesca ha così
finalmente rovesciato la vecchia concezione dei diritti sociali, costruita più
sul paternalismo che sull'effettiva tutela. Nella concezione paternalistica, si
trasforma un cittadino, che senza la pressione fiscale disporrebbe di risorse
proprie, in un "assistito". Lo Stato, con un'elevata imposizione
fiscale, priva il cittadino dei mezzi necessari per le sue spese inevitabili
(dal mantenimento, all'educazione). E poi gli riconosce detrazioni o gli
concede sussidi (assegni familiari, eccetera). Viene così lesa la dignità
personale, che pure è un principio costituzionale fondamentale. Si costringe
infatti un cittadino, che avrebbe le risorse per provvedere autonomamente alle
proprie esigenze, a dover compilare moduli, a sottostare a controlli, a subire
"vessazioni" burocratiche. In questo modo è anche ridotta,
soprattutto per le classi meno abbienti, la libertà di scelta tra servizi
pubblici e servizi privati, perché le risorse "restituite" spesso non
possono più essere utilizzate o destinate senza vincoli imposti
"dall'alto";
f)
l'attenzione per la dimensione sociale, nella forma della
"sussidiarietà", si manifesta anche nella scelta di trasferire le
persone morali e gli enti non commerciali, dall'IRPEG (dove finora sono stati
accatastati), nel catalogo dei soggetti passivi dell'imposta personale.
L'effetto finale è doppio. L'IRPEG diventa imposta sulle società, come negli
altri ordinamenti evoluti. Di riflesso, l'imposta sul reddito, estendendosi
oltre le persone fisiche, assume la piena caratterizzazione di imposta che
riguarda tutti i soggetti che producono reddito e risorse, soprattutto per
famiglia, consumo, risparmio-sicurezza, benessere;
g)
nella delega è previsto il potenziamento e l'ampliamento degli "studi di
settore". Lo "scaglione ampio" del 23 per cento rappresenta in
particolare la sinergia ideale con questa scelta, in termini di reale
possibilità di recupero dell'evasione. E' evidente infatti che la resistenza
delle imprese soggette all'imposta personale, riguardo all'adeguamento alle
indicazioni degli studi di settore, dipende principalmente dal fatto che
l'eventuale maggiore imponibile verrebbe colpito con aliquote alte, per lo più
non sentite come giuste dal contribuente. Ora invece per quasi tutte le imprese
varrà la regola che il costo dell'incremento è certo, e non è grande: il 23 per
cento. Il successo dei nuovi studi di settore, reso più probabile anche da
altre innovazioni introdotte nella delega, in particolare riguardo all'imposta
sul valore aggiunto (IVA), può rappresentare la realizzazione della vera
giustizia. E cioè della "giustizia grossa"; quella che separa chi
paga da chi non paga;
h)
c'è infine un nesso, tra "semplicità" e "civiltà" del
rapporto fiscale. E' in specie evidente che, rispetto all'attuale, il sistema
fiscale riformato (2 aliquote, solo deduzioni, concordato fiscale preventivo,
studi di settore efficienti, eccetera) sarà caratterizzato da un elevatissimo
grado di semplicità e dunque di civiltà del rapporto fiscale.
3.3. Ne deriva quella che
sembra definibile come una "giusta imposta".
Per alcuni, la giusta imposta
non esiste. O meglio: per alcuni sono giuste "tutte" le imposte.
Giuste, per il solo fatto che sono "imposte" dallo Stato.
In questa visione c'è una
oggettiva coerenza.
Infatti, per alcuni lo Stato
sta "in alto" e le persone stanno "in basso". E' dunque
"naturale" che le imposte siano pagate allo Stato, per il semplice
fatto che lo Stato "c'è", sopra le persone. E non perché lo Stato
"fa" qualcosa, a favore delle persone.
E' per questa stessa ragione
che, per alcuni, non c'è un "limite" all'imposizione, se non quello
"democraticamente" stabilito dallo Stato. Alias, stabilito da
quella degenerazione, prima dogmatica e metafisica, poi politica e burocratica,
che viene legittimata con la finzione organicistica: "lo Stato siamo
noi".
Ma la persona, nella sua
dignità universale e nella sua naturale capacità di rapporto sociale, sta
"sopra" lo Stato, che non è un fine, ma un mezzo.
In questa visione, se
"politicamente" prima dello Stato vengono le persone, "economicamente"
prima dello Stato vengono il "lavoro" e la "proprietà".
E' per questo che, nella nostra
visione, il limite naturale, fondamentale e costituzionale dell'imposizione
fiscale è rappresentato dal "lavoro" e dalla "proprietà
privata", basi fondamentali della "libertà" della persona e
della "ricchezza" della nazione.
Il diritto ai
"frutti" del lavoro e della proprietà è dunque un diritto
"originario" e "primario".
Un "diritto" che va
certo "combinato" con il "dovere" fiscale, ma che non può
essere "compresso" o "sacrificato" dal dovere fiscale,
oltre una certa "misura".
In questi termini, la logica ed
il titolo del prelievo fiscale cambiano radicalmente. L'imposizione fiscale non
può essere "illimitata" e non può essere basata "solo" sul
principio del "sacrificio" (solidaristico), ma anche sul principio
del "beneficio" (commutativo).
Se si parte "dal
basso" e non "dall'alto", se non si crede che devono essere le
"imposte" ad inseguire le spese pubbliche, ma viceversa; se il
presupposto del prelievo non è quanto "serve" allo Stato, ma quanto
può "dare" il privato; se non si ha una visione autoritaria dello
Stato, che "può" imporre quanto "vuole"; se insomma si
accetta il principio del "limite" all'imposizione, costituito dal
rispetto del "lavoro", della "proprietà", e dei
"frutti" che ne derivano, è evidente che la misura della giusta
imposta dipende unicamente dal "consenso" dei cittadini. Da quanto i
cittadini sentono giusto di dover pagare allo Stato a titolo d'imposta sui
"frutti" del loro lavoro e della loro proprietà.
Il primo esercizio da fare, per
determinare con questo criterio la "giusta imposta", è dunque
essenzialmente politico.
L'imposta non può essere solo
l'espressione del "potere statale", ma anche e soprattutto il segno
del "consenso sociale".
Per questo la misura
dell'imposta "non" può essere "odiosa".
Per esempio, è difficile
considerare non odioso un prelievo fiscale complessivo pari al 65 per cento sui
frutti del lavoro di una piccola impresa. Od un prelievo fiscale complessivo
pari al 121 per cento del reddito di una casa.
Si obietterà che questo non è
un esercizio "serio", che si tratta solo di "psicologia".
E' vero che si tratta di psicologia.
Ma è un esercizio serio e
necessario. Se il problema politico è quello del "consenso", se il
consenso sulle imposte è considerato come una della basi originarie e
fondamentali della "democrazia", allora si converrà che la ricerca
del consenso sull'imposta è un esercizio "politico". Politico, nel
senso nobile del termine.
In particolare, alla ricerca
della "giusta imposta", è giusto partire dall'imposta sul
"reddito prodotto".
Dall'imposta sul reddito
prodotto tanto dalle persone, quanto dalle imprese. E cioè da quel tipo di
imposta che, per la sua particolare natura, per la sua storia e per la sua
funzione, concentra in sé, rispetto alle altre forme di imposizione, la più
alta "cifra" politica.
Nel Vecchio Testamento (Primo
Libro di Samuele, 8: 11-17), Samuele attribuisce al Re il diritto alla decima
parte del prodotto.
Tra l'idea dell'imposizione
fiscale illimitata e la simbologia della decima, a noi pare che il
"punto-limite" possa ora essere costituito e rappresentato dal terzo:
dalla terza parte del reddito prodotto.
In realtà, stabilito nel terzo
il "punto-limite" dell'imposizione, è possibile:
a)
"escludere" dall'imposizione fiscale, ponendoli in una "no
tax area", che può e deve essere "più vasta dell'attuale", i
"redditi bassi", la "casa", la "famiglia", la
"vecchiaia", la "spesa sociale", il non-profit;
b)
per la parte di reddito che supera la "no tax area",
introdurre un'aliquota basica del 23 per cento, concentrata sul ceto medio e
sulle piccole imprese.
In questo modo il sistema trova
un naturale equilibrio tra i due poli, dell'efficienza e della giustizia,
perché:
a)
l'aliquota basica (che per l'estensione del suo campo di applicazione si
configura di fatto come aliquota unica), allentando la presa fiscale, da un
lato fa respirare l'economia e la rilancia; dall'altro lato, riduce l'evasione,
rendendola meno conveniente e meno giustificabile;
b)
l'imposizione resta comunque progressiva, per tre ragioni: 1) per effetto
dell'abbattimento alla base prodotto dalla previsione di una vasta "no
tax area"; 2) per effetto della concentrazione delle deduzioni sui
redditi bassi e medi; 3) per effetto dell'aliquota, marginale e limite, del 33
per cento, prevista per la fascia di reddito superiore (oltre i 100.000 euro).
3.4. Il regime fiscale sostitutivo per i redditi di natura finanziaria.
Nel corso degli ultimi anni il
sistema finanziario italiano ha subito profonde trasformazioni. Dal 1994 al
2000 la ricchezza finanziaria degli italiani è passata da circa 4,6 a circa 8,2
milioni di miliardi di lire. Nello stesso periodo si è inoltre manifestata una
forte ricomposizione dei portafogli dei risparmiatori, connessa (i) da
un lato all'esplosione del fenomeno del risparmio gestito (le quote di fondi
comuni detenute da residenti, nello stesso periodo, sono passate da circa 127
mila miliardi a circa 1 milione di miliardi di lire); (ii) dall'altro
lato, al sempre maggiore interesse verso i titoli azionari e le attività
finanziarie estere.
A questi dati va aggiunto
quello - macroeconomico e strategico - relativo alla "migrazione"
all'estero di capitali di origine italiana.
I mutamenti rendono necessari
interventi di riforma per garantire, con l'uniformità del prelievo, equità,
semplicità e competitività del sistema della fiscalità finanziaria italiana.
La riforma verrà coerentemente
realizzata sulla base dei criteri direttivi esposti nell'articolo 3, comma 1,
lettera c). Verranno adottate modalità procedurali uniformi, attraverso
l'estensione del sistema di prelievo alla fonte, con imposta sostitutiva
proporzionale, a tutti i redditi di natura finanziaria, indipendentemente dallo
strumento giuridico utilizzato per produrli, dalla durata dell'investimento,
dalla natura dell'emittente, ma fatta eccezione per i proventi derivanti, alle
persone fisiche e morali non imprenditori, da partecipazioni qualificate
(dividendi, utili e plusvalenze), da contratti di associazione in
partecipazione e da mutui, che saranno soggetti, in tutto o in parte,
all'imposta progressiva.
Il sistema dell'imposizione
sostitutiva delle imposte sul reddito è, in specie, in linea con le scelte
adottate dal legislatore, a partire dalla riforma fiscale del 1971.
Quest'ultima ha compreso i
redditi di capitale nel dominio dell'imposizione personale, coerentemente con i
princìpi teorici di onnicomprensività del prelievo e di commisurazione
dell'imposta personale sul reddito alla capacità contributiva dei soggetti passivi.
In realtà, in funzione della
scelta di favorire il risparmio, prevista dallo stesso dettato costituzionale
(articolo 47 della Costituzione), il legislatore aveva adottato - ed ha
confermato nei diversi interventi normativi che si sono succeduti, sulla
materia - il sistema alternativo prevalente del prelievo proporzionale
attraverso la ritenuta definitiva alla fonte, sostanzialmente sostitutivo
dell'imposta sul reddito per la maggior parte dei redditi di capitale.
L'estensione del regime di
imposizione sostitutiva dei redditi di natura finanziaria consente ora di
concretizzare uno dei vantaggi competitivi del nostro ordinamento, rispetto a
quelli di altri Paesi dell'Unione europea.
Si propone, in specie, quanto
segue:
a)
verrà data piena attuazione ai princìpi di generalità e di neutralità del
prelievo, attraverso la omogeneizzazione dell'imposizione su tutti i redditi di
natura finanziaria. A differenza del passato, si intende in questa sede
abbandonare la distinzione normativa fra le categorie dei redditi di capitale e
dei redditi diversi, fonte di segmentazioni di mercato, a favore dell'adozione
di un'unica categoria di redditi finanziari, indipendentemente dalla natura del
soggetto emittente, dalla durata e dallo strumento utilizzato per produrli,
comprendente i proventi di qualunque fonte. In essa dovranno rientrare, in
particolare, non solo i proventi derivanti dall'impiego di capitale (ad
esempio, gli interessi e gli scarti di emissione da titoli obbligazionari, gli
utili da partecipazione in società di capitali, eccetera), ma anche i proventi
caratterizzati da elementi di aleatorietà, spesso consistenti in un
differenziale. Quali, ad esempio, le plusvalenze da cessione ed i proventi dei
contratti derivati. L'attuale definizione puntiforme delle singole tipologie di
redditi di capitale e diversi sarà, a questo fine, sostituita da norme
definitorie di tipo generale, in grado di comprendere tutte le tipologie di
proventi e di escludere in radice gli effetti di fuorigioco del sistema
fiscale, prodotti dalle continue innovazioni delle forme contrattuali;
b)
l'attuale modello di tassazione dei titoli pubblici, con riferimento sia alla
natura e alla misura del prelievo, che alle modalità di tassazione, pare già
sostanzialmente allineato ai criteri di generalità e di uniformità che ispirano
la presente riforma.
La magnitudine del debito
pubblico italiano e la diffusione del suo collocamento presso investitori
esteri suggeriscono di mantenerne invariato il relativo regime fiscale. Il
regime del debito pubblico sarà quindi, per le citate ragioni di omogeneità,
esteso a tutte le altre tipologie di redditi di natura finanziaria in
portafoglio delle persone fisiche e degli enti non commerciali, fatta eccezione
per i proventi derivanti da partecipazioni qualificate (dividendi e
plusvalenze), la cui tassazione è disciplinata dalla prima parte dell'articolo
3.
L'estensione riguarderà sia gli
aspetti procedurali, con l'applicazione generalizzata del sistema di
imposizione sostitutiva, che il livello di prelievo, con l'adozione di
un'aliquota unica.
I dividendi derivanti da
partecipazioni non qualificate saranno sempre assoggettati al prelievo alla
fonte a titolo definitivo, restando in ogni caso preclusa la possibilità di
imposizione progressiva, alla quale saranno invece soggetti, seppure
parzialmente, i dividendi da partecipazioni qualificate, come disciplinato
dalla lettera b) del comma 1 dell'articolo 3. Sarà coerentemente
eliminato, in ogni caso, l'attuale sistema del credito d'imposta, in linea con
le tendenze in atto negli altri Paesi europei, dalle quali emerge la graduale
eliminazione dei sistemi di imputazione piena o parziale (cfr. Quadro
A), e tenuto conto della riduzione delle aliquote di prelievo sulle società.
Quadro A
LA TASSAZIONE DEI DIVIDENDI PER LE PERSONE FISICHE RESIDENTI NEI PAESI DELL'UE
Austria RD 25
Belgio RA/RD 15-25
Danimarca RA/RD 28-43
Finlandia RD 29 + CI
Francia P + CI
Germania RA 21.1 + esenzione 50
(dal 2002)
Grecia NI
Irlanda RA 20
Italia RD 12.5/P + CI
Lussemburgo RA 25 + esenzione 50
Paesi Bassi 1,2 valore patrimonio
Portogallo RD/RA 12.5 - 25 + CI
Regno Unito TS 10 - 32.5 + CI
Spagna RA 18 + CI
Svezia TS 30
Legenda: RD = Ritenuta Definitiva; RA = Ritenuta Acconto; P = Tassazione
Progressiva; CI = Credito d'Imposta; NI = Non Imponibile; TS = Tassazione
Separata.
L'unificazione delle aliquote
comporterà l'allineamento al livello di prelievo dei titoli pubblici per i
proventi oggi tassati al 27 per cento (cfr. Quadro B). Si tratta, in
particolare, dei proventi derivanti da: depositi bancari e certificati di
deposito; titoli di emittenti privati con durata inferiore a diciotto mesi;
obbligazioni con rendimento non allineato ai parametri di legge; accettazioni
bancarie; titoli atipici. Infine, l'introduzione di una normativa sulla "thin
capitalization", basata sullo standard europeo, tendente a
limitare la deducibilità degli interessi passivi sui finanziamenti nell'ipotesi
di un eccessivo ricorso alla leva finanziaria, renderà non più necessario un
sistema di prelievo penalizzante in capo all'investitore su strumenti con i
quali si tende a trasformare gli utili da partecipazione, indeducibili in capo
alla società, in interessi.
Per evitare indesiderati
effetti di segmentazione di mercato (sia dal lato dell'offerta, che dal lato
della domanda), il passaggio all'aliquota unica dovrà essere immediato: la
modifica opererà cioè con riferimento ai proventi derivanti sia dagli strumenti
di nuova emissione, che da quelli già in circolazione, percepiti
successivamente all'entrata in vigore della normativa delegata;
c)
per il risparmio affidato in gestione a investitori istituzionali si adotta un
nuovo sistema, basato sulla tassazione dei redditi all'atto del realizzo da
parte dei risparmiatori, in linea con quanto è, di norma, negli altri
ordinamenti (cfr. Quadro C), sia periodicamente, che all'atto del
riscatto. Il ripristino del criterio di tassazione sul realizzato, che
uniformerà la tassazione dei proventi derivanti dalle gestioni con quelli
derivanti dall'investimento diretto, si rende necessario per evitare
l'applicazione del prelievo su imponibili fittizi, in periodi di mercati in
rialzo, e la creazione di crediti d'imposta "virtuali", in periodi di
mercati in flessione.
Quadro B
ATTUALE
TASSAZIONE DEI REDDITI DI NATURA FINANZIARIA
(PERSONE
FISICHE E SOGGETTI EQUIPARATI RESIDENTI)
...
(omissis) ...
Legenda: RA = Ritenuta a titolo d'acconto; CS = Cedolare Secca (Ritenuta
a titolo definitivo o imposta sostitutiva).
Quadro C
REGIME
FISCALE DELLE GESTIONI COLLETTIVE
IN ALTRI
PAESI EUROPEI
a)
regime fiscale degli OICR di diritto interno
...
(omissis) ...
Segue
Quadro C
b)
regime fiscale dei sottoscrittori
...
(omissis) ...
In
particolare, in capo agli organismi di investimento collettivo del risparmio
(OICR) non sarà più applicato alcun prelievo, né annualmente né all'atto della
percezione dei proventi periodici e delle plusvalenze (questi continueranno,
dunque, ad essere considerati soggetti cosiddetti "lordisti").
Il prelievo, di tipo
proporzionale e sostitutivo delle imposte sui redditi, sarà infatti applicato,
a cura della società di gestione, sui proventi periodici all'atto della loro
distribuzione; ovvero, in caso di riscatto o di cessione delle quote da parte
dei partecipanti, sulla differenza tra l'importo incassato all'atto del
riscatto o della cessione delle quote e il prezzo pagato per la sottoscrizione
o per l'acquisto delle medesime.
La base di imposizione sarà
quindi unica, formata dalle componenti positive e negative realizzate dal
sottoscrittore nel periodo di detenzione delle quote.
La tassazione sarà operata con
l'aliquota prevista in via generale per i redditi di natura finanziaria e non
sarà necessario, diversamente da quanto è in altri ordinamenti, individuare le
singole componenti reddituali (interessi, dividendi, plusvalenze, eccetera) che
hanno generato il reddito, prodotto dall'OICR ed incassato dal risparmiatore.
Le minusvalenze eventualmente
realizzate dal sottoscrittore per effetto della partecipazione all'OICR
potranno essere compensate, al pari delle altre minusvalenze conseguite dal
risparmiatore (ad esempio: su titoli azionari), con le plusvalenze realizzate.
L'adozione del nuovo sistema
consentirà di superare gli inconvenienti connessi con l'attuale meccanismo di
tassazione sul maturato: in primo luogo, i proventi realizzati dall'OICR, ma
non distribuiti ai partecipanti, potranno essere reinvestiti al lordo di imposte,
traducendosi - a parità di altre condizioni - in rendimenti più elevati; in
secondo luogo, in periodi di mercati flettenti, sarà possibile evitare la
formazione di poste illiquide nell'attivo patrimoniale degli OICR,
rappresentate dai crediti d'imposta "virtuali" derivanti dal diritto
di riportare in avanti i risultati negativi di gestione maturati.
Sul piano delle condizioni
concorrenziali rispetto alle gestioni estere, il passaggio al sistema di
tassazione sul realizzato per le gestioni collettive di diritto italiano
contribuirà ad aumentare la competitività del sistema finanziario italiano su
due fronti: 1) uniformando le modalità di tassazione degli OICR italiani a
quelle dei fondi esteri armonizzati, viene eliminata l'attrattiva esercitata da
questi ultimi sugli investitori italiani, per effetto della tassazione secondo
il principio del "realizzato", attrattiva accentuatasi in misura
notevole a seguito della recente abolizione dell'"equalizzatore"; 2)
si migliora l'appetibilità dei fondi di diritto italiano per gli investitori
non residenti, che non subiranno più alcun prelievo alla fonte e
conseguentemente non dovranno più sottostare ai tempi di rimborso dell'imposta.
La riforma eliminerà anche le
distorsioni esistenti tra i sistemi di tassazione degli OICR italiani e dei
prodotti assicurativi a carattere finanziario (contratti di capitalizzazione,
assicurazioni sulla vita, polizze unit e index linked). I redditi
derivanti da questi ultimi, infatti, sono attualmente tassati soltanto nel
periodo d'imposta in cui vengono percepiti dal beneficiario, senza
l'applicazione dell'equalizzatore.
Il descritto regime fiscale del
risparmio gestito sarà applicabile esclusivamente alle gestioni collettive
effettuate da investitori istituzionali. Per le gestioni individuali di
patrimoni, in cui la titolarità degli strumenti finanziari rimane comunque in
capo al soggetto gestito, sarà previsto che i princìpi di cassa e di
compensazione saranno ovviamente attuati (a cura degli intermediari) con
riferimento ai proventi delle attività che compongono il patrimonio affidato in
gestione, incassati o realizzati in un determinato periodo di tempo. Verrà
peraltro mantenuto fermo l'ordinario regime fiscale di cassa e di compensazione
per le attività finanziarie affidate in amministrazione agli intermediari.
Come per tutte le modifiche
introdotte con la presente riforma, è prevista l'emanazione, con uno o più
decreti legislativi, di disposizioni correttive per il coordinamento delle
disposizioni vigenti con quelle derivanti dalla riforma;
d)
motivazioni di carattere economico, sociale, ordinamentale impongono che
l'imposizione fiscale sul risparmio previdenziale, ivi compreso quello che
affluisce alle casse di previdenza privatizzate, sia basata su criteri di
favore, rispetto a quella del risparmio finanziario, con regimi differenziati a
seconda delle tipologie. Anche con riferimento a ciò che accade in altre realtà
dell'Unione europea, il sistema di imposizione dei fondi pensione e delle altre
forme di risparmio previdenziale non deve più essere basato su di un paradigma
del tipo esenzione - tassazione - tassazione (cosiddetto "schema
ETT", cioè esenzione dei contributi versati al fondo, tassazione dei
redditi derivanti dall'investimento, tassazione delle prestazioni), ma su una
sequenza esenzione - esenzione - tassazione (EET), nella quale i redditi
derivanti dall'investimento non siano tassati, quantomeno sino al momento in
cui l'investitore non percepisce, in una qualsiasi modalità, i frutti di questa
forma di impiego del risparmio.
Non solo. La tassazione delle
prestazioni dovrà tenere conto, nel senso del favore, delle finalità specifiche
di tali investimenti, indirizzati al soddisfacimento dei bisogni previdenziali.
Il montante finale spettante al lavoratore sarà quindi tassato, ma in forma
attenuata, rispettando le modalità di formazione dello stesso. In particolare,
il favor accordato alla forma di risparmio qui in oggetto si potrà
tradurre, per la quota riconducibile ai frutti dell'investimento delle somme
versate nel fondo, nell'applicazione, al momento dell'erogazione delle
prestazioni, di un'aliquota d'imposta inferiore rispetto a quella prevista in
via ordinaria per i frutti delle attività finanziarie, eventualmente
differenziata in ragione della tipologia dei fondi ovvero del periodo iniziale
di operatività dei fondi stessi. Il regime di favor previsto per il
risparmio previdenziale consentirà, inoltre, di tener conto della necessità di
non ostacolare la mobilità transfrontaliera dei lavoratori, in linea con gli
orientamenti espressi dagli organi comunitari.
3.5. La ratio sottesa
alle disposizioni di cui al comma 1, lettera e), e ai commi 2 e 3 è
strettamente connessa alle peculiarità di una riforma che ha una portata di
carattere straordinario, e che pertanto non può risolversi né in un solo
esercizio finanziario, né tanto meno in una previsione capace di cogliere ex
ante la complessità dell'evoluzione economica, dalla cui dinamica - per
effetto dei cosiddetti "stabilizzatori automatici" - dipenderà, in
misura maggiore o minore, la copertura finanziaria del provvedimento.
Per ovviare a simili
inconvenienti, si è pertanto prevista una procedura che consente di
individuare, anno per anno, l'entità delle risorse da destinare alla
progressiva riduzione del prelievo, raccogliendo i suggerimenti dati dai
principali organismi internazionali, quali il FMI, l'OCSE e la Commissione
europea.
Questa procedura fa leva sul
disegno individuato dalla legge n. 468 del 1978, con le sue particolari
scansioni.
Una prima valutazione sarà
fatta nel Documento di programmazione economico-finanziaria, quindi tradotto
nella risoluzione parlamentare che lo approva: momento, quest'ultimo, che
impegna Governo e Parlamento verso un comune obiettivo e che è denso di
implicazioni regolamentari.
Successivamente, quelle
indicazioni si trasformano nei presupposti, sulla base dei quali è costruita la
legge finanziaria, sottoposta alla definitiva approvazione parlamentare.
4. Articolo 4. - L'imposta sul reddito delle società.
Questa parte della riforma ha
un obiettivo principale: armonizzare il nostro sistema fiscale con quelli più
efficienti, in essere nei Paesi industrializzati; in particolare, nei Paesi
membri dell'Unione europea. In questo modo si realizzano anche le indicazioni
espresse, proprio in questo senso, dalla stessa Commissione europea. Ulteriori
obiettivi, sempre nella logica della competizione fiscale, sono poi la
semplificazione della struttura del prelievo ed il contenimento degli effetti
di imposizione e di doppia imposizione giuridica, ma soprattutto economica.
Fa parte di questa strategia,
in una logica "captive", anche l'introduzione della cosiddetta
"Tonnage Tax".
Ma torniamo ai fondamentali.
Da tempo, il movimento che si
manifesta nel "benchmark" di riferimento (costituito
essenzialmente dal modello fiscale europeo) è espresso nel senso della
"riduzione" del prelievo sull'impresa, simbolizzato dalla progressiva
riduzione "dell'aliquota d'imposta".
Da questo punto di vista,
l'Italia ha recentemente percorso una strada particolarmente diversa,
introducendo:
a)
da una parte l'IRAP, un'imposta praticamente unica nel suo genere all'interno
del panorama internazionale;
b)
dall'altra la DIT, che affida la riduzione del prelievo a meccanismi
sofisticati, favoristici o dirigistici, non accessibili a tutte le imprese, ma
solo alle imprese particolarmente attrezzate e fortunate, sul piano finanziario
e tecnologico.
Tutte e due queste misure hanno
accresciuto il "particularisme", la disomogeneità del sistema
fiscale italiano, nel panorama internazionale. Tuttavia senza conseguire
l'obiettivo dichiarato, di rafforzamento patrimoniale delle imprese nazionali,
ed anzi discriminando, dato che il regime di maggiore favore fiscale viene così
riservato alla dimensione d'impresa prevalentemente finanziaria o tecnologica,
sfavorendo per contro relativamente e non razionalmente la piccola e media
impresa.
E comunque l'impresa con (più)
alta intensità di lavoro. Ciò che è ancora più singolare, in un Paese la cui
struttura produttiva è caratterizzata da un alto tasso di utilizzo del capitale
umano.
Non solo. La discriminazione
dell'IRAP, nei confronti del capitale di debito, ed il favore della DIT, nei
confronti del capitale di rischio, non sono stati e non sono, in particolare,
tali da prevalere sulla convenienza dell'imposizione proporzionale sui redditi
di capitale in capo alle persone fisiche, normalmente operata con l'aliquota
del 12,5 per cento. A ciò va aggiunto che il debito "fisiologico" -
quello cioè che deriva dalla capacità di credito propria dell'impresa e non del
socio - costituisce, con ogni evidenza, uno strumento normale, e non anormale,
nella gestione di un'impresa. Non c'è dunque ragione, razionale o
costituzionale, per penalizzarlo. In specie, non ha senso fare una politica di
riduzione del "costo del denaro". Per poi assoggettare questa
specifica voce di costo ad una forma di imposizione specifica.
L'"evoluzione
divergente" del nostro sistema fiscale risulta, a grandi linee, dal
prospetto di seguito riportato, che mette a confronto le variazioni delle
aliquote legali, operate nell'Unione europea tra il 1989 ed il 2001.
Va comunque notato a questo
proposito che, per quanto riguarda l'Italia, la rappresentazione contenuta nel
prospetto non è, e per necessità di cose, precisa. Ciò perché il prospetto non
tiene conto (non può tenere conto, trattandosi di un dato variabile da soggetto
a soggetto, da caso a caso, di anno in anno) del "maggior prelievo",
in percentuale sul reddito, che deriva dall'inclusione, nella base imponibile
IRAP, del costo del lavoro e degli oneri finanziari, che non sono voci omogenee,
perché non sono voci di reddito. Mentre l'incidenza fiscale finale deve essere
omogeneizzata proprio in rapporto al reddito. In ogni caso:
...
(omissis) ...
...
(omissis) ...
E'
evidente, in questo scenario, che l'omogeneità a cui mirare, come obiettivo
fondamentale, è essenzialmente quella dell'"aliquota" del prelievo.
Da questo punto di vista, la
presente riforma interviene con la riduzione al 33 (esattamente la
"media" europea) dell'aliquota dell'imposta sul reddito e con la progressiva
abolizione dell'IRAP (l'"anomalia" europea), qui cominciando
dall'esclusione, dalla base imponibile IRAP, del costo del lavoro.
Per introdurre (per
"finanziare") la minore aliquota possibile e la progressiva riduzione
dell'IRAP, si devono abbandonare istituti che, pur giustificati nel contesto
economico in cui sono stati concepiti, ormai non sono più adeguati,
nell'attuale fase di globalizzazione dell'economia.
Lo si può fare iniziando
dall'obiettivo di adottare, nel nostro Paese, una base imponibile coerente con
lo standard europeo. Detassando le plusvalenze, ma correlativamente
rendendo "neutrali" minusvalenze ed altre connesse componenti
negative di reddito, cancellando "scorciatoie", "loophole",
eccetera.
Più in dettaglio e tuttavia
partendo, per ragioni tecniche, dal circuito dei dividendi, invece che dalla
grande scelta di neutralizzazione congiunta delle componenti di reddito
positive e negative, va notato quanto segue.
Dopo la riforma introdotta
dalla Germania nel luglio del 2000, l'Italia è uno dei pochissimi Paesi che
ancora riconoscono un credito d'imposta pieno e rimborsabile sui dividendi
distribuiti a soci che siano a loro volta società di capitali.
Questa disomogeneità non va
valutata positivamente, perché comporta una distorsione casuale del corretto
funzionamento del mercato. Per esemplificare, con il meccanismo del credito
d'imposta, l'acquisizione di società residenti in Italia, da parte di non
residenti, attraverso la costituzione di una società locale, è comparativamente
meno onerosa dell'acquisizione di società di ogni altro Stato, anche per
l'assenza di norme sulla sottocapitalizzazione delle imprese.
Partiamo dall'imposizione sui
dividendi, secondo il metodo dell'imputazione. Questo metodo, attualmente in
vigore nel nostro sistema fiscale, attribuisce al socio un credito
rimborsabile, corrispondente all'imposta personale assolta dalla società.
La logica posta alla base di
questo metodo è quella di determinare il prelievo definitivo in relazione alla
situazione soggettiva del socio e non a quella dell'impresa che ha prodotto il
reddito. Si tratta di un metodo che era efficiente, quando le dimensioni
dell'economia coincidevano con le frontiere dello Stato, all'interno del quale
risiedevano i soci. In un'economia globalizzata, spesso il socio risiede in una
giurisdizione diversa da quella in cui è operata la produzione del reddito.
E' per questo che la
determinazione del prelievo va baricentrata sulla situazione "oggettiva"
dell'"impresa" e non su quella "soggettiva" del
"socio".
La crisi del sistema di
imposizione sui dividendi per imputazione comporta inevitabili aggiustamenti,
per evitare il fenomeno della doppia imposizione economica.
E' un'esigenza che deriva dalla
maggior internazionalizzazione delle imprese. Imprese che, per operare sul
mercato globale, tendono ad articolarsi in una pluralità di soggetti giuridici
collocati in giurisdizioni diverse. In questa situazione è costante la ricerca
della combinazione di "asset" più efficiente.
Per queste ragioni, alla regola
generale dell'imponibilità delle plusvalenze, realizzate da società di capitali
mediante la cessione di partecipazioni sociali, si è sostituita quella
dell'esenzione. Infatti, al verificarsi di condizioni diverse, ma sempre
correlate alla stabilità dell'investimento, tali plusvalenze sono o stanno per
divenire esenti nei seguenti Paesi:
Austria;
Belgio;
Danimarca;
Lussemburgo;
Germania;
Olanda;
Spagna;
Regno
Unito.
Per eliminare lo svantaggio
competitivo delle imprese residenti, la riforma accoglie la regola
dell'esenzione, prevedendo solo le cautele necessarie ad evitare che questa si
estenda:
a)
agli investimenti di breve periodo;
b)
alle partecipazioni in società senza esercizio di impresa.
Questa forma di esenzione,
conosciuta nel diritto fiscale internazionale con la denominazione di "partecipation-exemption",
riguarda le plusvalenze realizzate da società di capitali o da enti commerciali
con la cessione di partecipazioni in società sia residenti che non residenti,
sia di capitali che di persone; con l'unica esclusione di quelle che godono
all'estero di un regime fiscale privilegiato.
Come si è notato nella parte
dedicata alla riforma della imposta sul reddito, l'esenzione - conformemente a
quanto avviene negli altri Paesi che la prevedono - non si estende alle persone
fisiche, in quanto percettori finali del reddito, e quindi non si estende agli
imprenditori individuali ed ai soci di società di persone. Per questi soggetti
(comunque favoriti dall'abbattimento delle aliquote e dalla progressiva
erosione dell'IRAP) è prevista una parziale inclusione delle plusvalenze nel
reddito imponibile, in modo tale da ottenere una sostanziale riduzione della
doppia imposizione economica; viene simmetricamente prevista la deducibilità
dei costi relativi.
Più in generale, la delega
prevede, per la determinazione del reddito d'impresa dei soggetti passivi della
imposta sul reddito, l'applicazione delle norme contenute nella disciplina
della imposta sul reddito delle società, se compatibili; norme opportunamente
modificate per tener conto delle differenze esistenti tra i soggetti passivi.
All'esenzione delle plusvalenze
sulle partecipazioni sociali non può non corrispondere l'esclusione dei
dividendi dalla formazione del reddito imponibile. In specie, l'esclusione
viene realizzata estendendo il regime previsto per i dividendi comunitari anche
ai dividendi distribuiti da società residenti nel territorio dello Stato ed in
Stati non aderenti all'Unione europea; con l'unica eccezione, ancora, dei
dividendi provenienti da Paesi a regime fiscale privilegiato.
Anche per i dividendi,
l'esclusione è limitata ai soggetti passivi della imposta sul reddito delle
società. Per le persone fisiche, siano essi imprenditori individuali o soci di
società di persone, il regime dei dividendi - analogamente a quanto previsto
per le plusvalenze - è quello della parziale inclusione nel reddito imponibile,
al netto della corrispondente quota dei costi relativi.
Così come è negli altri Paesi
che l'hanno introdotta, all'esenzione delle plusvalenze su partecipazioni
"simmetricamente" corrisponde l'indeducibilità delle minusvalenze
realizzate ed iscritte oltre a quella dei costi relativi, fra i quali vanno
considerati anche gli oneri finanziari.
A questo proposito, l'articolo
4 del disegno di legge delega, alla lettera f) del comma 1, contiene in
specie la presunzione secondo cui il possesso di partecipazioni che si
qualificano per l'esenzione è innanzitutto finanziato dal patrimonio netto
contabile opportunamente rettificato.
Solo l'eventuale eccedenza del
valore di libro di tali partecipazioni, rispetto al patrimonio netto contabile,
richiede il calcolo di un "pro-rata" di indeducibilità, da costruire
con riferimento ai valori patrimoniali della società partecipante.
Inoltre, come verrà notato più
avanti, non rilevano ai fini del calcolo dell'eccedenza - e quindi non
determinano alcuna indeducibilità di oneri finanziari - le partecipazioni in
società, relativamente alle quali viene esercitata l'opzione per la tassazione
di gruppo (nonché, eventualmente, anche quelle in società il cui reddito è
tassato in capo ai soci, per effetto dell'esercizio dell'opzione prevista dalla
lettera i) del comma 1 dell'articolo 4).
Il mancato riconoscimento del
gruppo d'imprese, ai fini dell'imposizione sul reddito, è un altro importante
elemento di disomogeneità del sistema fiscale nazionale, rispetto a quelli dei
Paesi assunti come riferimento.
Per contro, il riconoscimento
fiscale dei gruppi costituisce il naturale correttivo dell'indeducibilità delle
minusvalenze su partecipazioni.
Per questi motivi, il disegno
di legge delega prevede la facoltà di optare per la tassazione su basi
consolidate di gruppo ai fini dell'imposta sul reddito delle società. Il metodo
previsto a questo fine è derivato da un'analisi comparata, in base alla quale
si possono individuare due modelli fondamentali:
a)
nel primo modello, ciascuna società continua a presentare la propria
dichiarazione dei redditi, ma può attribuire ad altra società del gruppo gli
effetti di risparmio d'imposta consentiti dal proprio imponibile negativo
opportunamente rettificato. Nell'ambito dei Paesi più industrializzati - e con
particolare riferimento a quelli del G7 - questo metodo è adottato dalla
Germania e dall'Inghilterra. Anche l'Australia lo prevede, ma ha manifestato
l'intenzione di sostituirlo con quello che segue come secondo modello;
b)
nel secondo modello - alternativo al precedente - la società capogruppo
presenta un'unica dichiarazione, contenente la somma algebrica dell'imponibile
proprio e di quelli delle società controllate, opportunamente rettificati.
Questo secondo metodo è adottato dalla Francia e dagli Stati Uniti. Si accinge
ad adottarlo il Giappone e, come appena notato, l'Australia.
Questo progetto di riforma
assume il secondo modello, basato sulla presentazione di un'unica
dichiarazione, considerando: 1) la sua maggiore semplicità; 2) la possibilità
di prevedere la neutralità delle transazioni infragruppo per i beni diversi da
quelli che producono ricavi, in alternativa all'ordinario regime fiscale; 3) la
minore esigenza di prevedere norme antielusive.
Il secondo modello si
caratterizza in particolare per i seguenti elementi fondamentali:
a)
l'opzione per la tassazione di gruppo è una facoltà che può essere esercitata
discrezionalmente, da parte delle singole società interessate, per un periodo
non inferiore a tre anni, salvo ovviamente il caso di uscita dal gruppo;
b)
l'appartenenza al gruppo dipende dal solo requisito formale costituito dal
controllo, per una percentuale non inferiore alla maggioranza dei diritti di
voto esercitabili nell'assemblea ordinaria. Sussistendo questo requisito,
l'intero imponibile della controllata confluisce nella determinazione algebrica
dell'imponibile di gruppo, che sarà operata nella dichiarazione dei redditi
della società od ente controllante. A questo proposito è in particolare utile
ricordare le percentuali di possesso richieste dai Paesi assunti come
riferimento:
Australia
100;
Francia
95;
Spagna
90;
USA
80;
Regno
Unito 75;
Germania
50,1;
c)
la capogruppo deve necessariamente essere un soggetto passivo dell'imposta sul
reddito delle società, residente o con stabile organizzazione nel territorio
dello Stato; le società controllate devono necessariamente essere residenti nel
territorio dello Stato;
d)
è previsto un regime facoltativo di neutralità fiscale per gli scambi di beni,
diversi da quelli che producono ricavi, che avvengono all'interno del gruppo
fiscale. In caso di uscita dal gruppo o di suo scioglimento, è consentito il
riallineamento dei valori fiscali a quelli di libro dei beni così trasferiti;
e)
le partecipazioni in società incluse nella tassazione di gruppo sono
irrilevanti ai fini del calcolo del "pro-rata" di indeducibilità
degli oneri finanziari, salva la possibilità di prevedere il recupero a
tassazione, eventualmente parziale, nel caso di successiva cessione delle
partecipazioni stesse.
Il consolidato fiscale, cui
fino ad ora si è fatto riferimento, è relativo alle società ed agli enti
residenti. In aggiunta, viene considerata l'opportunità di consentire, a
determinate condizioni, l'inclusione nel consolidato anche delle società non
residenti.
In ambito internazionale,
questa possibilità è, al momento, esplicitamente prevista solo dalla Danimarca
e dalla Francia.
Va tuttavia notato che
l'inclusione delle attività estere è di fatto possibile - come prassi diffusa
ed accettata - anche nei Paesi, come Inghilterra e Stati Uniti, che limitano il
consolidato fiscale alle società residenti.
Questi Paesi infatti, adottando
il principio della tassazione del reddito mondiale ("world wide income"),
non possono escludere le stabili organizzazioni all'estero delle società
residenti, per cui estendono il consolidato anche ad attività estere, in via di
principio escluse.
Da questo punto di vista,
queste legislazioni appaiono meno sistematiche di quella francese e danese,
perché fanno dipendere il consolidamento dalla circostanza - priva di valore
economico e spesso determinata da fattori casuali o di pianificazione fiscale -
del veicolo (società separata o stabile organizzazione) attraverso il quale è
operata la gestione delle attività estere.
Va inoltre notato che
l'esplicita regolamentazione del consolidato mondiale consente di introdurre il
principio "all in, all out", secondo cui l'esercizio
dell'opzione non è consentito se non per tutte le attività estere.
La possibilità di includere
nella tassazione di gruppo anche le società non residenti è prevista con gli
stessi criteri e modalità previsti per il consolidato domestico; salve alcune
deroghe necessarie. In particolare:
a)
se viene esercitata l'opzione per il consolidato mondiale, devono
necessariamente essere incluse tutte le controllate estere. Per questo motivo,
l'esercizio dell'opzione è riservato alle società ed agli enti controllanti di
grado più elevato, residenti nel territorio dello Stato;
b)
sull'esempio francese, si prevede un'opzione irrevocabile per un periodo non
inferiore a cinque anni (i successivi rinnovi avvengono per periodi triennali);
c)
l'opzione non può essere esercitata (e, se esercitata, perde efficacia) se i
bilanci della controllante residente e delle controllate estere non sono
sottoposti a revisione contabile da parte di soggetti qualificati;
d)
a differenza di quanto previsto per il consolidato domestico, quello mondiale
consentirà la compensazione degli imponibili proporzionalmente alla quota di
partecipazione direttamente ed indirettamente posseduta.
L'istituto del consolidato
mondiale costituisce certamente un'opzione onerosa, tanto per la complessità
del suo funzionamento, quanto per le necessarie garanzie che devono essere
previste a tutela della ragioni erariali.
Per contemperare le opposte
esigenze dell'efficienza e dell'onerosità, sono state previste la revisione
contabile dei bilanci delle società coinvolte e la possibilità, per
l'amministrazione finanziaria, di prevedere condizioni ulteriori, anche diverse
per singolo contribuente, a tutela della corretta determinazione del reddito
imponibile.
Inoltre, è stata attribuita
all'amministrazione finanziaria la corrispondente discrezionalità consistente
nel semplificare l'esercizio dell'opzione, mediante deroga all'applicabilità di
norme riferibili a realtà giuridiche e produttive esclusivamente nazionali.
Infine, va ricordata la
possibilità di riportare in avanti il credito per imposte pagate all'estero,
rimasto inutilizzato nell'esercizio di competenza. Questa possibilità, prevista
anche nei Paesi assunti come riferimento, è un fattore necessario per il
concreto funzionamento del consolidato mondiale.
A questi interventi essenziali
e caratterizzanti, se ne devono aggiungere alcuni, necessari per assicurare le
coerenze interne del sistema ed il suo miglior funzionamento. Nei termini che
seguono:
a) rettifiche dell'attivo e accantonamenti.
Nella disciplina in vigore,
sono frequenti le interferenze fiscali nelle rappresentazioni contabili. Si
pensi al caso dei limiti forfetari al riconoscimento fiscale delle rettifiche
dell'attivo e degli accantonamenti. O, anche, al principio della previa
imputazione al conto economico dei costi e degli oneri da portare in deduzione (cfr.
articolo 76, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi). L'effetto
combinato di queste regole fiscali genera interferenze indesiderabili ed è
incoerente con il sistema di tassazione di gruppo; sistema che consente ad
altra società del gruppo di dedurre le componenti forfetarie, non dedotte dalla
società cui naturalmente farebbero capo.
Nel disporre l'abolizione
dell'obbligo di transito dal conto economico per le predette componenti
negative forfetariamente determinate, saranno comunque previste le necessarie
cautele normative al fine del recupero del differimento d'imposta in questo
modo consentito;
b) contrasto della sottocapitalizzazione delle imprese.
Nel sistema fiscale in vigore,
il contrasto del fenomeno di sottocapitalizzazione delle imprese è affidato al
disposto dell'articolo 7, commi da 1 a 4, del decreto-legge 20 giugno 1996, n.
323, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1996, n. 425. Questa
norma prevede una maggior ritenuta del 20 per cento sui valori mobiliari
depositati a garanzia di imprese residenti, da parte di soggetti nei confronti
dei quali i proventi dei titoli depositati subiscono la ritenuta a titolo
d'imposta.
Se comparata con quelle in
vigore nei sistemi fiscali di riferimento, la norma italiana presenta
caratteristiche singolari e contraddittorie, che la rendono al tempo stesso
eccessivamente severa, per alcuni aspetti, e facilmente aggirabile, per altri.
A differenza delle analoghe norme vigenti negli altri Paesi, infatti, la norma
italiana: (i) non richiede nessun rapporto di partecipazione tra il
soggetto depositante e l'impresa finanziata, colpendo in tal modo anche le
garanzie prestate dai non soci; (ii) penalizza solo una determinata
garanzia reale rilasciata in modo formale; (iii) non considera le
garanzie personali; (iv) non considera i finanziamenti direttamente
erogati dal socio.
Per razionalizzare la
necessaria azione di contrasto del fenomeno di sfruttamento fiscale della
sottocapitalizzazione delle imprese (non della "sottocapitalizzazione"
tout court, che è un fatto economico a sé), sono previsti i
seguenti princìpi e criteri direttivi:
1)
rilevanza solo dei crediti erogati o garantiti dal socio, che detiene
direttamente o indirettamente una partecipazione rilevante nell'impresa
(intendendo per tale quella non inferiore al 10 per cento), a condizione che
gli oneri finanziari non confluiscano in un reddito complessivo imponibile in
Italia ai fini dell'imposta sul reddito o dell'imposta sul reddito delle società;
2)
alle condizioni predette, rilevanza anche dei finanziamenti erogati da parti
correlate al socio (da identificare in base al requisito del controllo di cui
all'articolo 2359 del codice civile). Allo stesso requisito del controllo si
farà riferimento al fine di determinare se esiste una partecipazione indiretta
dell'entità richiesta;
3)
previsione di un rapporto tra la quota di patrimonio netto e l'indebitamento
dell'impresa riferibili al socio con i requisiti predetti, differenziandolo per
le società, la cui attività consiste in via esclusiva o prevalente
nell'assunzione di partecipazioni e per le altre società. A questo proposito, è
utile ricordare che nella recente riforma tedesca questo rapporto consente un
debito rispettivamente pari a tre volte ed ad una volta e mezza la
corrispondente quota di patrimonio netto;
4)
verificandosi un rapporto superiore a quello consentito, viene posto a carico
del contribuente l'onere di dimostrare che i finanziamenti eccedenti derivano
dalla capacità di credito dell'impresa e non da quella del socio. In assenza di
questa dimostrazione, gli oneri finanziari dovuti dall'impresa saranno
assimilati ad utili distribuiti e conseguentemente considerati indeducibili
nella determinazione del reddito d'impresa;
5)
rilevanza dei finanziamenti comunque erogati dal socio, avendo riguardo anche
ai comportamenti od agli atti giuridici, che - pur non qualificati formalmente
come prestazioni di garanzie reali o personali - ottengano lo stesso risultato
economico;
6)
irrilevanza dei finanziamenti assunti nell'esercizio dell'attività bancaria;
c) abrogazione dell'imposta sostitutiva sulle plusvalenze di cui al
decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358.
L'abrogazione dell'imposta
sostitutiva di cui al predetto decreto legislativo è, per cominciare, soltanto
una logica conseguenza dell'introduzione dell'esenzione per le plusvalenze su
partecipazioni societarie realizzate da società di capitali o della parziale
inclusione delle stesse nel reddito imponibile di imprenditori individuali e
società di persone. Per quanto riguarda le imprese, infatti, l'abrogazione
dell'imposta del 19 per cento consegue alla riduzione dell'entità del prelievo
sul reddito ordinario; riduzione che rende meno giustificabile l'esistenza di
un prelievo sostitutivo. Non solo. L'abrogazione dell'imposta sostitutiva
risponde anche all'esigenza di non perpetuare il meccanismo vigente, per cui il
valore attuale dell'imposta sostitutiva, prelevata con l'aliquota del 19 per
cento, risulta in linea di massima significativamente inferiore al valore
attuale del risparmio d'imposta, derivante dai corrispondenti ammortamenti
deducibili dal reddito ordinario, colpito dall'aliquota del 40,25 per cento.
L'introduzione della "partecipation-exemption"
e l'abolizione dell'imposta sostitutiva escludono la possibilità di convertire
in valori fiscalmente riconosciuti il disavanzo da annullamento e da concambio
nelle operazioni di fusione e di scissione.
Salve le modifiche necessarie
per il loro coordinamento con il sistema di prelievo introdotto dalla presente
riforma, verranno invece mantenuti i regimi di neutralità fiscale e di
determinazione dell'imponibile, previsti sia dal decreto legislativo n. 358 del
1997, che dal decreto legislativo n. 544 del 1992;
d) riformulazione della disciplina del credito d'imposta per imposte
pagate all'estero.
Coerentemente con
l'introduzione del consolidato mondiale e con una più generale esigenza di un
aggiornamento dell'istituto, viene prevista la revisione della disciplina del
credito per imposte pagate all'estero, al fine di: 1) operare il calcolo
relativamente a ciascuna controllata estera ed a ciascuna stabile
organizzazione o alternativamente, solo per queste ultime, prevedere il
riferimento a tutte quelle operanti nello stesso Paese; 2) consentire il
riporto in avanti ed all'indietro del credito d'imposta inutilizzato per un
periodo eventualmente differenziato, non inferiore ad otto esercizi;
e) opzione per la trasparenza delle società di capitali ("consortium
relief").
L'indeducibilità delle perdite
su partecipazioni, conseguente all'introduzione della "partecipation-exemption",
richiede l'introduzione di opportuni correttivi, per evitare la penalizzazione
delle "corporate joint venture" ed, in genere, degli altri
accordi che richiedono la costituzione di società di capitali, alla cui
compagine sociale partecipano a loro volta altre società di capitali o enti
commerciali. In questi casi, gli eventuali risultati negativi della "joint
venture" sarebbero infatti fiscalmente irrilevanti per i partner,
salva la possibilità per uno solo di questi, ricorrendone le condizioni, di
avvalersi del consolidato fiscale. Al fine di rimuovere questo effetto negativo,
sarà consentito, in questi casi, di optare per il regime di trasparenza fiscale
delle società di persone.
La stessa opzione potrà
eventualmente essere consentita in presenza di soci non residenti, solo in
assenza dell'obbligo di ritenuta sugli utili distribuiti.
La società che esercita
l'opzione garantisce con il proprio patrimonio l'adempimento degli obblighi
fiscali da parte dei soci;
f) determinazione forfettaria del reddito derivante dalle attività marittime
(cosiddetta "tonnage tax").
Il 24 giugno 1997 la
Commissione europea ha approvato nuove linee guida relativamente agli aiuti di
Stato consentiti per l'attività marittima. Queste linee guida sono
prevalentemente mirate a consentire la riduzione dei costi previdenziali e
fiscali: per questi è in specie prevista la riduzione a zero dell'imposizione
sul reddito, da sostituire con un'imposta dovuta in cifra fissa per fasce di
tonnellaggio di stazza netta. In conformità alle linee guida della Commissione,
la Germania, l'Olanda, la Norvegia e l'Inghilterra hanno abolito l'imposizione
sul reddito derivante dalle attività marittime, sostituendola con un'imposta
sul tonnellaggio. Altri Stati membri stanno per adottare analoghe iniziative.
Questa riforma, al fine di mantenere la competitività delle imprese di
navigazione italiane, prevede coerentemente un meccanismo di prelievo
forfetario basato sul tonnellaggio;
g) riformulazione delle norme volte a contrastare l'utilizzo di Paesi a regime
fiscale privilegiato.
Nel testo unico sulle imposte
dirette, le norme volte a contrastare l'utilizzo di società residenti in Paesi
a regime fiscale privilegiato sono attualmente contenute nell'articolo 127-bis.
Questa disposizione prevede l'imputazione, ai soci residenti, del reddito
prodotto da controllate estere residenti nei Paesi predetti (cosiddetti
"CFC").
La norma va riformulata, al
fine di estendere l'applicazione della particolare disciplina anche alle
società collegate al soggetto residente, prevedendo - in assenza del requisito
del controllo - l'imputazione del maggiore fra l'utile di bilancio ed un
reddito forfetariamente determinato, mediante l'applicazione di coefficienti di
rendimento ai beni che figurano nell'attivo patrimoniale. Nel caso relativo ai
fornitori residenti in Paesi a bassa fiscalità, al fine di consentire la
deducibilità dei costi effettivamente sostenuti, quando il committente
residente renda note le operazioni poste in essere all'amministrazione
finanziaria e fornisca la prova che le stesse rispondono ad un effettivo
interesse economico ed hanno avuto concreta esecuzione.
5. Articolo 5. - L'imposta sul valore aggiunto.
L'attuale disciplina dell'IVA è
il prodotto di un lungo processo di stratificazione normativa. Si può calcolare
che, dal momento dell'introduzione dell'IVA nel nostro ordinamento (operata con
il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633), ad oggi,
si siano succeduti più di 80 provvedimenti legislativi
"fondamentali".
Ne è derivato un quadro normativo
in cui si sovrappongono criteri non sempre omologhi. I singoli istituti si
sviluppano in sequenze esasperatamente casistiche, gli obblighi formali ed i
meccanismi applicativi sono disciplinati in modo evidentemente troppo
complesso.
Ne deriva l'esigenza di
riformare l'IVA, sulla base dei princìpi generali della codificazione,
delineati nell'articolo 2 del presente disegno di legge.
Fermi restando, ovviamente, i
vincoli comunitari.
In questa logica, si può in
particolare notare quanto segue:
a)
la riforma mira all'obiettivo di avvicinare la struttura dell'imposta sul
valore aggiunto a quella propria e tipica di un'imposta sui consumi. Ciò perché
sono presenti nella disciplina vigente - come modificata dal decreto
legislativo n. 313 del 1997, in attuazione di una delle deleghe conferite con
la legge n. 662 del 1996 - distorsioni applicative che incidono sui criteri di
determinazione della base imponibile. In particolare, le disposizioni in tema
di indetraibilità dell'imposta assolta a monte non sono coerenti con i criteri
sviluppati dalla normativa comunitaria e dalla giurisprudenza della Corte di
giustizia delle Comunità europee;
b)
viene espressa la necessità di un coordinamento con il sistema dell'accisa, per
evitare gli effetti di parziale duplicazione giuridica ed economica, presenti
nella disciplina vigente; effetti che conseguono ad alcune delle attuali e
principali forme di determinazione della base imponibile;
c)
si prevede la razionalizzazione dei sistemi speciali in funzione della
particolarità dei settori interessati. Nel rispetto delle prescrizioni
comunitarie in materia, ogni regime speciale deve assicurare l'attuazione dei
princìpi generali e dei criteri informatori propri dell'imposta dell'IVA,
introducendo gli elementi differenziali specifici, richiesti dalla
particolarità dei settori interessati. In altri termini, i regimi speciali
devono manifestarsi in adattamenti della disciplina generale, senza
contraddirne i princìpi ispiratori. Le particolarità dei singoli settori non
devono produrre distorsioni nell'applicazione dell'imposta, aggravi od oneri
maggiori, rispetto a quelli ordinariamente configurabili;
d)
si estende anche all'IVA il processo di semplificazione degli adempimenti
formali a carico dei contribuenti, già iniziato, nel corso di questa
legislatura, con l'adozione dei primi interventi per il rilancio dell'economia
("100 giorni").
La disposizione contenuta nel
comma 2 dell'articolo 5 caratterizza in modo innovativo la disciplina
dell'imposta. Compatibilmente con i vincoli comunitari, si prevede l'esclusione
dalla base imponibile dell'1 per cento del volume d'affari, destinato a
finalità etiche, nella logica della "De-Tax" (o "A-Tax").
Per quanto riguarda il medesimo
comma 2 dell'articolo 5, si procederà con una metodologia analoga a quella
indicata all'articolo 3.
In sede di impostazione della
legge finanziaria, le risorse disponibili saranno ripartite a seconda delle
priorità: la parte più consistente sarà ovviamente destinata alla riduzione
delle aliquote, mentre una quota minore sarà invece destinata a coprire l'onere
derivante dall'attuazione del comma considerato.
Va infine ricordato che la
sessione di bilancio resta momento essenziale per la ricomposizione del
processo decisionale. Processo caratterizzato da due momenti fondamentali: da
un lato, la valutazione delle risorse disponibili; dall'altro lato, la loro
destinazione.
6. Articolo 6. - L'imposta sui servizi.
Il mondo delle cosidette "imposte minori"
è popolato da forme fiscali eterogenee. Che tuttavia hanno alcuni profili in
comune: la frammentata molteplicità dei presupposti impositivi; le dimensioni
contenute delle basi imponibili; l'elevato numero dei contribuenti coinvolti;
la consistenza e la continuità del gettito prodotto.
La "minorità" ha
escluso, per lungo tempo, queste imposte dalle riforme che hanno, invece, più
volte investito le imposte "maggiori".
Questo segmento della fiscalità
statale si è così sviluppato in modo complesso, disperdendosi in una grande
varietà di tipologie strutturali e di adempimenti formali e sostanziali.
Per questo motivo, la riforma
delle imposte minori segue un movimento inverso rispetto a quello che ne ha
determinato lo sviluppo: la concentrazione si sostituisce alla dispersione
delle forme impositive.
Anche in questo settore viene
in specie attuato il principio cardine proprio di questa riforma fiscale:
"e pluribus unum"; dalla molteplicità all'unitarietà.
L'imposta sui servizi concentra
in particolare, in un'unica obbligazione fiscale, una vasta serie di imposte
minori.
Va, in specie, notato che la
fiscalità minore si caratterizza per la richiesta e la conseguente fruizione,
da parte del contribuente, di un servizio pubblico.
Su questo denominatore comune
non viene soltanto fondata l'unificazione dei presupposti d'imposta, ma anche
l'unicità dell'obbligazione fiscale e l'unitarietà delle modalità di prelievo.
A questa drastica
semplificazione e concentrazione del prelievo si collegano due effetti
positivi: la riduzione ai minimi termini degli adempimenti richiesti al
contribuente e la possibilità di realizzare apprezzabili economie di scala interne
all'amministrazione finanziaria.
7) Articolo 7. - L'accisa.
Attualmente,
l'imposizione sull'energia si articola in una vasta molteplicità di forme di
prelievo. Nel complesso, il livello dell'imposizione è elevato, anche se la sua
incidenza rispetto al prodotto interno lordo (PIL) si è ridotta dall'inizio
degli anni novanta.
Il gettito deriva quasi
totalmente dalle imposte sugli oli minerali e sul gas metano; imposte che non
sono applicate in modo uniforme nel Paese.
Rispetto alla media europea, in
Italia i prezzi dell'energia sono relativamente più elevati ed i consumi
energetici più ridotti. Il livello dei prezzi finali e dell'imposizione è
sensibilmente più elevato nel settore civile e dei trasporti, che nel settore
industriale, soggetto a vincoli di competitività internazionale.
Il livello raggiunto dalla
fiscalità in campo energetico è stato determinato, fino ad oggi, da necessità
di gettito e non ha seguito logiche di ordine ambientale.
L'unico tentativo in questo
senso - peraltro connesso ai vincoli internazionali di adesione agli accordi di
Kyoto - è stato quello fatto con la cosidetta "carbon tax". Un
meccanismo di prelievo aggiunto sui prodotti di combustione, che tuttavia non
si è mai sviluppato, perché destinato ad incrementare una fiscalità energetica
già troppo elevata in partenza.
La riforma del sistema
dell'accisa, delineata dall'articolo 7 del presente disegno di legge, comprende
il riordino dell'imposizione sull'energia, ma si estende all'imposizione su
altri prodotti (come, ad esempio, alcoli e spiriti); prodotti, questi ultimi,
accomunati, a quelli della prima e più ampia categoria, dal denominatore comune
dell'assoggettamento ad accisa.
La norma di delega individua
nell'efficienza e nell'ottimalità i principi ordinatori del sistema
dell'accisa.
Più in particolare, le
direttrici della riforma sono due: la determinazione graduale delle singole
accise ed il coordinamento del sistema dell'accisa con l'imposta sui consumi. Le
finalità della riforma sono la riduzione dell'incidenza dell'accisa sui
prodotti essenziali, la correzione degli effetti esterni negativi su ambiente,
salute e benessere e l'eliminazione delle duplicazioni d'imposta.
8. Articolo 8. - Graduale eliminazione dell'IRAP.
L'introduzione dell'IRAP - in
attuazione di una delle deleghe contenute nella legge n. 662 del 1996 - ha
costituito, e lo si è già notato, un caso notevole di
"particolarismo" fiscale domestico. Mentre gli altri ordinamenti
fiscali europei tendevano, e tendono, a convergere verso istituti uniformi -
indotti dalla crescente globalizzazione ed interdipendenza delle economie
nazionali - in Italia si è fatta una scelta "divergente": l'elemento
più tipico della nuova imposta IRAP è, infatti, la sua assoluta particolarità.
Unica nello scenario
internazionale, estranea alla tradizione comunitaria e nazionale, l'IRAP
dovrebbe in specie soddisfare un'esigenza di semplificazione e perseguire un
obiettivo di innovazione. Parallelamente all'istituzione della nuova imposta
sono stati, infatti, soppressi alcuni tributi ed i contributi sanitari. Sul
piano dell'innovazione sostanziale, si è mirato ad introdurre uno strumento di
prelievo capace di orientare (di "dirigere") le scelte degli operatori
economici verso il capitale di rischio, invece che verso il capitale di debito;
verso l'investimento innovativo in macchine, invece che verso i lavoratori,
eccetera.
A conclusione del ciclo
iniziale di applicazione dell'imposta, si può fare un bilancio.
L'introduzione dell'IRAP non ha
semplificato il sistema fiscale. L'IRAP si caratterizza, infatti, proprio a
causa dell'assoluta unicità e complessità dei suoi criteri di applicazione,
soprattutto sotto il profilo del costo della gestione dei dati contabili. La
proliferazione degli adempimenti a carico del contribuente ha dato in specie
luogo ad una sorta di "terzo binario". Alle regole civilistiche,
sulla redazione del bilancio, ed alle disposizioni fiscali, per la determinazione
dei redditi, si sono in specie aggiunti ulteriori criteri, per identificare le
voci del conto economico rilevanti ai fini del calcolo del valore aggiunto
della produzione (vap).
In sintesi, le complicazioni
derivanti dall'estremo tecnicismo tipico della nuova disciplina hanno di gran
lunga superato gli effetti di semplificazione connessi alla soppressione dei
vecchi tributi.
Quanto agli obiettivi di
innovazione è possibile notare e confermare che non solo l'IRAP, ma anche le
altre misure - adottate nel corso della passata legislatura e orientate nella
medesima direzione, come la dual income tax- sono informate a princìpi
favoristici e dirigistici. Viene esclusa la neutralità del sistema fiscale
rispetto alle scelte degli operatori economici, indirizzate d'imperio verso
specifiche forme di impiego dei fattori della produzione.
Inoltre, l'introduzione
dell'IRAP ha reso più gravoso il carico fiscale sulle imprese individuali, sui
lavoratori autonomi e sugli enti non commerciali: questi soggetti, in
precedenza esclusi dall'imposta locale sui redditi (ILOR), contribuiscono in
specie attualmente per il 35 per cento al gettito complessivo dell'IRAP.
Ma l'aspetto più negativo della
nuova imposta è, senza dubbio, costituito dalla penalizzazione del lavoro.
L'IRAP avrebbe dovuto detassare
il lavoro e quindi favorire l'occupazione. Non è stato e non è così. E' stato
ed è l'opposto.
In specie, l'IRAP, tassando il
costo del lavoro ed il costo del denaro, e non essendo deducibile dall'imposta
sui redditi (come invece erano i vecchi contributi), non solo accresce rispetto
al passato il carico fiscale sul lavoro, ma nel presente e per il futuro
favorisce l'investimento in "robot" e/o in "macchine
rubalavoro" (che non pagano l'IRAP), o all'estero (dove è possibile
l'assunzione di operai stranieri, al posto degli italiani, senza pagare
l'IRAP).
Conseguentemente, l'imposta si
è rivelata fortemente penalizzante per le imprese più "labour intensive",
per i soggetti che fanno maggiormente ricorso al lavoro come essenziale fattore
della produzione.
Ne deriva una discriminazione
inaccettabile, a danno del "capitale umano": uno dei valori che
invece sono considerati più importanti, in questa legislatura, tra l'altro
anche per accrescere la solidità e la competitività internazionale del nostro
sistema produttivo.
In questa direzione si
collocano già del resto le misure contenute nell'articolo 4 della legge n. 383
del 2001. In particolare, gli incentivi fiscali per il potenziamento del
sistema produttivo non sono previsti solo per l'acquisto di beni strumentali
nuovi, ma anche per gli investimenti in "capitale umano". Dalle
attività di formazione del personale addetto, all'attività produttiva, agli
interventi a sostegno della creazione di asili nido aziendali, eccetera. La
leva fiscale viene, così, utilizzata per favorire il soddisfacimento di
primarie esigenze sociali dei lavoratori, non considerati come "fattori
della produzione", ma come soggetti da valorizzare, tutelando anche la
loro dimensione familiare.
9. Articoli 9 e 10.
L'attuazione di una riforma
fiscale così ampia ed intensa può essere solo graduale, tale da assicurare
coerenza tanto con gli equilibri di finanza pubblica delineati negli strumenti
di programmazione finanziaria adottati annualmente, quanto con gli impegni
derivanti dai programmi di stabilità concordati con l'Unione europea.
In particolare:
a)
la struttura flessibile propria del disegno della nuova IRPEF consente di modularne
l'introduzione in funzione delle risorse via via disponibili. Non avrebbe
dunque senso l'argomento negativo critico secondo cui la riforma avrebbe un
"costo", stimato "ex ante". Un costo che
polemicamente si vorrebbe rigido ed insostenibile.
L'attuazione della riforma sarà
invece "flessibile" e perciò "sostenibile", pur nella sua
coerenza di fondo;
b)
per le altre parti della riforma, escluse ovviamente quelle a costo zero, la
copertura sarà prodotta dall'ampliamento della base imponibile (prodotta dai
nuovi meccanismi di competizione-attrazione; dal recupero di base imponibile,
eccetera) e da economie di bilancio;
c)
"De-Tax" (od " A-Tax "). L'ammontare delle
risorse per finanziare la De-Tax sarà determinato con legge finanziaria,
mentre alla copertura parziale o totale del relativo onere si provvederà
utilizzando una parte dei fondi che saranno qui accantonati per l'obiettivo
della cooperazione internazionale.
Per evitare effetti
distributivi erratici e trasferimenti intertemporali di reddito inopportuni, il
vincolo di bilancio aggregato è completato da una rilevante garanzia per i
singoli settori istituzionali.
L'introduzione della riforma,
tenuto conto anche della riforma della previdenza, dovrà mantenere invariati i
saldi dei singoli settori, in primo luogo delle famiglie e delle imprese,
garantendo in questo modo da trasferimenti non intenzionali.
Il vincolo di bilancio
aggregato, come quello settoriale, saranno esplicitati anno per anno e settore
per settore nel Documento di programmazione economico-finanziaria.
In particolare, le esigenze di
flessibilità del sistema riformato, coerentemente con le esposte necessità di
attuazione graduale, richiedono che l'intervento di radicale rinnovamento del
sistema fiscale si accompagni alla possibilità di interventi correttivi ed
integrativi, nei due anni successivi al completamento della riforma.
Interventi, questi, da attuare attraverso una serie di decreti legislativi da
adottare nel termine di due anni dalla data di entrata in vigore della legge.
Parallelamente, la possibilità di ulteriore intervento da parte del legislatore
delegato deve intendersi rivolta anche all'introduzione di tutte le
modificazioni legislative necessarie per il migliore coordinamento delle
disposizioni vigenti, sulla base dei medesimi princìpi e criteri direttivi.
Solo in questo modo è possibile garantire la costruzione complessiva e coerente
di un sistema fiscale riformato e depurato dalle vischiosità derivanti dalle
disarmonie previgenti.
Come si è premesso,
l'intervento in atto mira alla riforma del sistema fiscale statale. Ne deriva
che il tema dei rapporti dello Stato con le regioni e gli enti locali, nella
dimensione fiscale e finanziaria, resta transitoriamente garantito dagli
attuali meccanismi qualitativi e quantitativi di finanza locale, comunque, sul
presupposto e nella prospettiva che il completamento e l'attuazione del
processo di riforma costituzionale, iniziato con la "novella" costituita
dal Titolo V della parte seconda e da proseguire con la devoluzione, impegna
insieme il Governo e gli altri soggetti del federalismo ad una parallela
progressiva riforma dell'intero sistema di federalismo fiscale.
Per assicurare che la verifica
e il dibattito parlamentare sui decreti adottati dal Governo nell'esercizio
delle deleghe conferite con il presente disegno di legge possano svilupparsi in
maniera approfondita e integrale, salvaguardando le esigenze di completezza,
qualificazione e sistematicità, si prevede l'istituzione di una Commissione
parlamentare bicamerale chiamata ad esprimersi proprio sugli schemi dei decreti
adottati per la costruzione della riforma in esame. La Commissione sarà
composta complessivamente da trenta parlamentari, in misura paritetica tra
senatori e deputati, nominati rispettivamente dal Presidente di ciascun ramo
del Parlamento, nel rispetto della proporzione esistente tra i diversi gruppi
parlamentari. Termini e modalità previsti per l'emanazione dei pareri
richiesti, riprendendo forme già collaudate in passato per analoghi
procedimenti, rispondono alle parallele esigenze di adeguato approfondimento
specialistico e di massimo snellimento dei lavori. A questo fine, si prevede
che il termine per l'espressione del parere sia di trenta giorni dalla data di
trasmissione degli schemi di provvedimenti alla predetta Commissione, con la
facoltà di richiedere una sola volta ai Presidenti delle Camere una proroga di
non oltre venti giorni, in considerazione della complessità della materia o per
il numero dei provvedimenti trasmessi nello stesso periodo all'esame della
Commissione.