DISEGNO DI LEGGE COSTITUZIONALE n. 1187
(atti del Senato della Repubblica)
Modifiche dell'articolo 117 della Costituzione
(in atto all'esame dell'Assemblea del Senato)
Art.
1.
(Modifiche
dell'articolo 117 della Costituzione)
1.
Dopo il quarto comma dell'articolo 117 della Costituzione è inserito il
seguente:
"Le
Regioni attivano la competenza legislativa esclusiva per le seguenti materie:
a)
assistenza e organizzazione sanitaria;
b)
organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione;
c)
definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse
specifico della Regione;
d)
polizia locale".
FRONTESPIZIO
E RELAZIONE
DISEGNO
DI LEGGE COSTITUZIONALE
presentato
dal Presidente del Consiglio dei ministri
(BERLUSCONI)
e
dal Ministro per le riforme istituzionali e la devoluzione
(BOSSI)
di
concerto col Ministro per gli affari regionali
(LA
LOGGIA)
COMUNICATO
ALLA PRESIDENZA IL 26 FEBBRAIO 2002
----
Modifiche
dell'articolo 117 della Costituzione
----
Onorevoli
Senatori. - Prima di entrare nel merito delle modifiche costituzionali proposte
con il presente disegno di legge costituzionale, occorre soffermarsi su un
problema di metodo, connesso con gli avvenimenti più significativi della XIII
Legislatura.
Quest'ultima, infatti, è stata
caratterizzata da tentativi molteplici nel corso dei quali si è cercato, con
risultati diversi, di incidere sul tessuto costituzionale dell'ordinamento.
Riflettere, quindi, su quanto è avvenuto significa cercare di individuare il
percorso più giusto per realizzare quegli obiettivi di riforma e di
modernizzazione della nostra Carta fondamentale, che costituiscono, ancora
oggi, il nodo non risolto di una lunga fase di transizione.
Occorre in primo luogo affrontare quella
che, per usare le parole del Presidente del Consiglio nell'esposizione
programmatica alle Camere, costituisce "la prima questione": la riforma
federalista dello Stato, la devoluzione di poteri effettivi di governo alle
regioni.
È necessario ribadire, sempre richiamando
le parole del Presidente del Consiglio, che "la battaglia federalista ha
avuto il merito di porre il grande problema di decentrare poteri e
responsabilità effettivi in un contesto di equilibrio territoriale tra nord e
sud e di unità nazionale". Il nostro federalismo, infatti, si fonda sui
princìpi di autonomia e di sussidiarietà.
"In materia di sanità, di istruzione
e di sicurezza civile - con la necessaria gradualità ma in tempi certi e
coniugando efficienza e solidarietà - intendiamo dunque imprimere una svolta
federalista alla macchina dello Stato, ridisegnando di conseguenza intere
sezioni architettoniche dell'edificio pubblico".
È da ricordare come, fin dall'origine, la
nostra Carta fondamentale avesse un carattere "aperto", tale da
consentire all'impianto dei valori e dei princìpi fondamentali di guidare
un'evoluzione che va nella direzione di avvicinare sempre di più le istituzioni
alla realtà delle identità e delle articolazioni territoriali. Questa era anche
la volontà e l'auspicio di Luigi Einaudi, la figura più eminente del pensiero
federalista italiano dopo Carlo Cattaneo.
Il disegno di legge costituzionale si
muove lungo una linea che è stata perseguita e sviluppata in un periodo
tormentato, ma che pure e nonostante le difficoltà è riuscita a produrre
qualche frutto. Se non fosse stato così non avremmo, oggi, nè la riforma dei
governi regionali (legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1), nè
l'introduzione dei principi del giusto processo nelle norme della giurisdizione
(legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2). Due riforme importanti, che sono
state il risultato del clima che abbiamo appena evocato, ma che soprattutto
sono state la conseguenza di una corretta applicazione dell'articolo 138 della
Costituzione. Questo resta, nell'attuale fase, l'unico strumento utile e
praticabile per procedere lungo la via di una possibile riforma costituzionale.
Come noto, il nostro ordinamento è
strutturato in un sistema di fonti che circoscrive l'ambito di efficacia
normativa. Vincoli e limiti derivano dalle "riserve" di vario tipo,
che ne hanno accompagnato l'evoluzione. Riserve a volte esplicite, quando
direttamente previste dalla normativa di rango superiore, altre volte
implicite: risultanti cioè dalla coerenza sistemica dell'ordinamento in quanto
tale. L'articolo 138 della Costituzione non è estraneo a questa logica di
carattere più complessivo. I suoi limiti sono strettamente correlati alla sua
funzione, che è quella di adeguare le disposizioni costituzionali alle
trasformazioni della società italiana. Questa è stata, almeno fino ad oggi, la
curvatura che ha segnato l'uso della norma "manutentiva", che i padri
della Carta costituzionale hanno delineato.
Queste brevi annotazioni ci consentono di
cogliere alcuni aspetti del più recente dibattito costituzionale
sull'argomento. Si è molto discusso sul cosiddetto carattere incrementale del
processo di riforma costituzionale, che rappresenta la strategia a cui si è
dovuto far ricorso, dopo il fallimento degli approcci di carattere globale. È
preferibile invece usare il termine "gradualismo" del processo di
riforma. La differenza non è solo lessicale: nel primo caso, si resta infatti
confinati in un orizzonte esclusivamente giuridico, nel secondo ci si apre
verso un mondo più complesso, la cui valutazione è presupposto necessario per
soluzioni in grado di resistere nel tempo.
Ma ciò che fa veramente la differenza nel
proiettare queste due impostazioni sul delicato terreno del federalismo è il
rifiuto di un approccio sostanzialmente giacobino. Nel primo schema, infatti, è
il legislatore nazionale che, seguendo le proprie convenienze, prende
l'iniziativa di avviare il processo riformatore. Nel secondo, questo è
soprattutto conseguenza di una pressione che proviene dalla società, che il
legislatore nazionale deve interpretare e tradurre in norma. Lo farà, decidendo
le proprie strategie parlamentari, ma con un vincolo di contenuto, che è la
conseguenza della maturazione intervenuta nel profondo della coscienza politica
del paese.
Il gradualismo riformatore si è espresso
in questi ultimi anni in occasioni diverse ed esso non ha mai avuto una
prospettiva esclusivamente giuridica. Si prenda ad esempio la citata legge
costituzionale n.1 del 1999.
Si sostiene che queste nuove norme siano
state la conseguenza necessitata dei mutamenti introdotti dalle leggi
elettorali: l'elezione diretta del sindaco avrebbe comportato la necessità di
modificare la legge elettorale regionale; da questo complesso di modifiche
sarebbe, quindi, derivata l'esigenza di una riforma costituzionale, qual è
appunto quella appena richiamata.
Il ragionamento, pur corretto, trascura
tuttavia un aspetto importante: le modifiche originarie, quelle cioè relative
alle leggi elettorali, sono state, a loro volta, la conseguenza di fenomeni più
profondi.
È stata la necessità del federalismo e
della devoluzione a richiedere una norma che responsabilizzasse gli
amministratori locali di fronte ai propri elettori.
È stato questo processo a tracciare uno
spartiacque tra la spinta che, come nel passato, tendeva ad omologare verso lo
Stato centrale la forma di governo regionale e quella che si manifestava
nell'esigenza di innovazione politica ed istituzionale.
Ed è stata quest'ultima alla fine a
prevalere, come appare evidente, se si confronta la normativa elettorale locale
con quella nazionale.
Lo scarto non solo è evidente, ma dimostra
che il processo riformatore diventa incisivo e stabile solo quando tende a
coniugarsi con gli interessi reali del paese. È allora che il disegno della
modernizzazione cessa di essere un mero esercizio intellettualistico -
ingegneristico, per produrre effetti reali e conseguenze permanenti sugli
assetti istituzionali del paese.
Un ulteriore aspetto da considerare è
quello del decentramento amministrativo realizzato a partire dalla legge 15
marzo 1997, n. 59, che ha trasferito funzioni amministrative alle regioni ed
agli enti locali. Con quel processo, si è osservato, si è andati oltre
l'articolo 117 della Costituzione all'epoca vigente, determinando una frattura
che per essere sanata ha richiesto una modifica di rango superiore. Tale impegno
sarebbe stato rispettato con le recenti modifiche del titolo V della parte
seconda della Costituzione, approvate al termine della XIII legislatura. Una
simile tesi è tutt'altro che convincente. Senza voler minimamente entrare nella
disamina di un processo estremamente complesso, come quello al quale si è fatto
cenno, non si può dimenticare come l'accelerazione imposta a qual processo di
riforma costituzionale non ha reso un buon servizio alla qualità normativa
dell'intera legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Ciò posto, il problema della copertura
costituzionale della legge n. 59 del 1997 era effettivo. La legge n. 59 del
1997 è stata realizzata con il concorso attivo delle regioni e degli enti
locali. Essa ha quindi un indubbio, anche se non esclusivo, contenuto pattizio,
che costituisce un nucleo che va salvaguardato. Il suo limite è un altro:
quello di aver attribuito ai poteri locali una serie di competenze e di
funzioni, senza preoccuparsi di verificare preventivamente se le stesse
potessero essere esercitate.
Il fatto è che nel trasferire queste
funzioni non si è abbandonata del tutto una logica accentratrice, poichè è
stato il legislatore nazionale a decidere quali funzioni trasferire ed in che
modo tratteggiare il relativo disegno. Non sorprende, quindi, che in questo
processo si sia trascurato proprio uno degli elementi centrali: l'effettiva
possibilità da parte dei poteri locali di rispondere alle nuove attese.
Ancora una volta si è tentato di seguire
una via già sperimentata in passato, nonostante il suo fallimento. Non si
dimentichi che con il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977
furono provvisoriamente assegnate alle regioni competenze e funzioni che
debordavano rispetto alle loro effettive capacità amministrative. Si aspettò
quindi la loro implosione, per procedere dopo ad un nuovo accentramento
legislativo ed amministrativo. Anche allora le cose sarebbero andate
diversamente, se si fosse seguito il metodo del gradualismo. Naturalmente anche
in quegli anni si svolse una qualche trattativa, ma il fatto non deve
fuorviare. Essa avvenne tra soggetti dotati di una diversa forza contrattuale.
Si risolse in un patto tra uno Stato centrale, da una parte, e poteri fragili
dall'altra: più strutture burocratiche, che non veri centri, come oggi sono
diventati, di rappresentanza politica delle regioni. Poteri, poi, che non
avevano maturato una propria filosofia, che non vedevano nella devoluzione di
poteri l'affermazione del principio di sovranità, che a sua volta resta tale
solo se ha la forza dell'effettività. Se è in grado, innanzi tutto, di
individuare autonomamente le proprie priorità e su queste sagomare l'esercizio
delle proprie funzioni e delle proprie competenze.
La scelta complessiva operata con il
disegno di legge costituzionale si incentra sulle esigenze primarie indicate
dalle regioni e sulla attribuzione della potestà legislativa esclusiva in
alcune materie essenziali. Si tratta in primo luogo delle materie della
sicurezza, della sanità e della scuola, per le quali è riconosciuta la
attivazione, da parte di ciascuna regione, della propria competenza legislativa
esclusiva.
La devoluzione alle Regioni di queste
materie configura il nucleo essenziale di quello Stato (davvero) federale, che
si intende costruire nel tempo, con gradualismo e secondo un progetto lineare,
che si articolerà in una serie di fasi successive, a partire dalla modifica
della composizione dell'organo di giustizia costituzionale e dalla riforma del
sistema parlamentare bicamerale.
Sono dunque coinvolte le competenze più
direttamente collegate alla natura dell'ente regionale ed all'esigenza di un
più stretto raccordo tra l'ente che esercita il potere ed il cittadino.
Per quanto riguarda la sicurezza dei
cittadini è necessario che l'azione di contrasto sul territorio veda un ruolo
più diretto ed incisivo dei poteri locali ed in primo luogo delle regioni.
L'obiettivo è di rendere più efficace l'azione di prevenzione e repressione dei
cosiddetti "piccoli crimini" che, specie per i meno abbienti, sono il
pericolo maggiore e rappresentano in realtà dei "grandi crimini".
Tale obiettivo può essere perseguito non solo utilizzando meglio la polizia
locale, ma coordinando questi sforzi con quelli quotidianamente realizzati
dagli altri corpi dello Stato, che vanno raccordati più strettamente con il
territorio. L'azione di contrasto, infatti, per risultare efficace non può non
ispirarsi ad una strategia unitaria e ad una maggiore conoscenza del teatro di
operazione.
I poteri locali ed in primo luogo quelli
regionali devono, pertanto, nel proprio ambito territoriale, poter partecipare
a pieno titolo al relativo coordinamento, contribuendo a definire le specifiche
forme di intervento. Il fenomeno criminale non è mai un fatto esclusivamente tecnico,
le sue determinanti sono anche storico-sociali. Non sono, quindi, uniformi sul
territorio nazionale e, di conseguenza, l'azione di contrasto non può essere
decisa da un centro che, per forza di cose, non è in grado di misurarsi sempre
e comunque con le singole specificità. Basterebbero queste brevi
considerazioni, che attengono ad un minimo di fondata riflessione sociologica,
per comprendere la forza di una devoluzione che è strumento non certo
alternativo ma sussidiario all'azione di carattere nazionale.
Le modifiche proposte al testo
costituzionale riflettono questa filosofia: alla regione, innanzitutto, spetta
la competenza legislativa esclusiva relativamente alla polizia locale. Questi
specifici sforzi organizzativi devono poi essere coordinati in un quadro più
ampio in cui azione repressiva ed azione preventiva devono bilanciarsi e
fondersi reciprocamente. Tutto ciò può verificarsi solo se tra gli apparati
centrali e quelli locali nascono delle sinergie, se il dialogo e l'intesa si
sostituiscono a fenomeni di concorrenza ed ai tentativi di primazia.
In materia di sanità, fuori dalla
definizione dei diritti fondamentali attinenti alla prima parte della Carta
costituzionale, che è e deve essere comunque salvaguardata, è riconosciuta la
competenza legislativa esclusiva di ciascuna regione, che sarà libera di
disciplinare e organizzare le strutture della cui efficacia risponderà
direttamente davanti ai propri cittadini. Il modello di sanità non può essere
deciso dal centro, nè valere per tutte le regioni. Si pensi solo alla diversità
degli andamenti demografici, che caratterizzano le diverse realtà locali e che
legittimano soluzioni e modelli di organizzazione sanitaria non omologhi.
Ad esempio, le zone con una prevalenza di
terziario si caratterizzano in modo ben diverso da quelle a forte vocazione
industriale. Non è solo il tipo di produzione, con le connesse malattie
professionali, ad influenzare l'organizzazione sanitaria; sono i
"tempi" diversi di ciascuna zona, sono le caratteristiche più
generali del territorio.
In materia di istruzione e formazione, la
legislazione statale dovrà definire esclusivamente le norme generali quali:
l'ordine degli studi, gli standard di insegnamento, le condizioni per il
conseguimento e la parificazione dei titoli di studio. Le regioni dovranno,
invece, curare l'organizzazione scolastica, strutturare l'offerta dei programmi
educativi, garantire la gestione degli istituti scolastici. L'obiettivo della
riforma è quello di realizzare il massimo di libertà di insegnamento e, in
ultima analisi, di accelerare il processo di modernizzazione del paese di cui
l'istruzione e la formazione sono pilastri fondamentali. In un'epoca in cui
l'innovazione tecnica e scientifica rappresenta il principale motore della crescita,
disporre di un serbatoio di intelligenze significa guardare al futuro con
minori apprensioni. È questa la considerazione di carattere generale che spinge
a realizzare il massimo sforzo affinchè il sistema formativo produca i suoi
effetti.
Pare difficile sostenere che sia meglio
perseguire una scelta uniforme su tutto il territorio nazionale. È sufficiente
infatti considerare i tempi di trasmissione degli impulsi provenienti dalla
società verso i centri decisionali. Prima che questi raggiungano i luoghi
deputati, superando ostacoli burocratici e resistenze, e che si addivenga a
conseguenti decisioni, la realtà sociale sarà, con ogni probabilità, nuovamente
cambiata e reclamerà nuove priorità. Ecco perchè tutti i tentativi di riforma
compiuti in questi anni, anche quando si è cercato di copiare malamente quanto
avveniva all'estero, si sono dimostrati fallimentari. Le soluzioni approntate,
dopo un faticosissimo processo decisionale, erano già vecchie quando,
finalmente, giungevano ad un passo dall'attuazione. Questi limiti sistemici si
possono superare utilizzando la grande risorsa della sussidiarietà verticale,
spostando il baricentro decisionale, avvicinandolo il più possibile alla realtà
con cui interagire.
Per quanto riguarda più specificamente
l'articolo del disegno di legge costituzionale, non si può non ricordare come
da più parti siano state avanzate alcune riserve sul testo della legge
costituzionale n. 3 del 2001, sulla scorta delle quali tale legge è stata
considerata: inadeguata perchè non corrispondente alle esigenze reali delle
autonomie; inutilmente complicata, nell'intreccio di competenze e funzioni, con
il rischio di fenomeni di deresponsabilizzazione istituzionale e politica;
lesiva, per alcuni aspetti, del principio di sovranità popolare.
Tuttavia, pur prendendo atto dei suddetti
rilievi riferiti alla legge costituzionale n. 3 del 2001, non si può che
procedere oltre, secondo il cammino già delineato alla vigilia del referendum
del 7 ottobre 2001, tenendo conto delle modifiche introdotte da quella legge
costituzionale.
L'articolo di cui si compone il progetto
costituisce dunque il nucleo dell'avvio di una fase federalista del nostro
ordinamento, in grado di valorizzare le nostre istituzioni attraverso il
potenziamento, in primo luogo, delle istituzioni regionali. La rilevanza del
ruolo delle autonomie, evidenziata già dall'articolo 5 della Costituzione,
trova nell'articolo 117 sempre maggiore conferma e articolazione specifica.
Con l'attribuzione della competenza esclusiva
e con la soluzione adottata si tende, fondamentalmente, a parificare la
funzione legislativa regionale alla funzione legislativa statale, con l'effetto
che esse risultano sottoposte ad un analogo regime giuridico, secondo cui
entrambe trovano fondamento, criteri di indirizzo e limiti esclusivamente nella
Costituzione e nelle leggi costituzionali. La legge dello Stato e quella della
regione partecipano così della stessa natura, essendo espressione di volontà
generale ciascuna nel proprio ambito. La legge regionale viene così sottratta,
per alcune materie, alla condizione di atto di integrazione (se non di
attuazione) della legge statale, cui nella passata esperienza è stata spesso
relegata.
La attivazione da parte delle regioni
della propria competenza esclusiva per alcune materie essenziali espressamente
indicate costituisce pertanto lo snodo fondamentale del progetto, una sorta di
rivoluzione copernicana che riconosce potestà legislativa esclusiva alle
regioni che autonomamente - e non per determinazione imposta - eserciteranno il
potere loro attribuito dalla Costituzione.
Lo schema normativo è imperniato sulla
attivazione da parte della regione della propria competenza legislativa
esclusiva nelle seguenti materie:
- assistenza e organizzazione
sanitaria;
- organizzazione scolastica, gestione
degli istituti scolastici e di formazione;
- definizione della parte dei
programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione;
- polizia locale.
Quanto alla prima materia per cui potrà
essere attivata la competenza legislativa esclusiva delle regioni (assistenza e
organizzazione sanitaria) è da sottolineare che essa è diretta a ricomprendere
in tale competenza tutte le dimensioni della tutela sanitaria, ivi compresa
l'assistenza ospedaliera. La formulazione prescelta, grazie al richiamo ai
princìpi costituzionali e dunque anche alle disposizioni contenute nella prima
parte della Costituzione, non mette in dubbio l'intervento legislativo dello
Stato per la fissazione dei livelli minimi ed essenziali delle prestazioni e di
tutela del cittadino. Lo Stato potrà altresì intervenire sui grandi temi che
costituiscono diretta derivazione del principio di tutela della salute di cui
all'articolo 32 della Costituzione.
La peculiarità ed il rilievo della materia
sanitaria nell'ambito delle competenze legislative esclusive della regione
corrisponde all'opinione diffusa secondo cui essa "costituisce qualcosa di
completamente diverso rispetto all'amministrazione di altri settori, e il non
prenderne atto nella Costituzione potrebbe avere una ricaduta deleteria: le
eccezioni al modello di struttura autonomista che si devono introdurre per
tenere conto delle particolarità del Servizio sanitario nazionale finirebbero per
essere dei cavalli di Troia che si prestano a interferenze in altri settori,
proprio perchè sarebbero espresse in formule generali come tali suscettibili di
essere estese all'infinito" (Mor).
Per quanto riguarda la materia
dell'istruzione, le regioni potranno attivare la loro potestà esclusiva per gli
aspetti organizzativi e gestionali come pure per la programmazione di specifico
interesse regionale. Pertanto, una volta attribuita alle regioni la competenza
esclusiva in materia di programmazione di loro specifico interesse, spetterà
allo Stato assicurare l'omogeneità complessiva degli studi, in maniera da
contemperare i "saperi" comuni a tutto il territorio con i
"saperi" e le tradizioni locali.
Come già sottolineato, in tale contesto
residuerà comunque allo Stato, in applicazione di quanto già previsto nella
prima parte della Costituzione e dell'articolo 117, secondo comma, lettera n),
in materia di norme generali sull'istruzione, la definizione dei tratti
fondamentali del sistema, quali gli ordini di studio, gli standard di
insegnamento, le condizioni per il conseguimento e la parificazione dei titoli
di studio.
Infine, per quanto concerne la polizia
locale, le regioni potranno disciplinare in via esclusiva ed in modo più
puntuale, efficace e corrispondente alle esigenze concrete sul territorio, gli
interventi di prevenzione e repressione dei cosiddetti "piccoli
crimini". Come già ricordato, l'amministrazione regionale, più vicina ai
cittadini e quindi pronta a coglierne le esigenze ed i bisogni più immediati in
relazione ai disagi determinati dalla microcriminalità, saranno in grado di
organizzare in maniera più efficace le attività di prevenzione, di presidio e
di intervento sul territorio.
Si tratta di un complesso di materie per
le quali si può parlare di avvio di una vera fase federalista del nostro
sistema, una fase caratterizzata da flessibilità nel funzionamento e dal
principio di responsabilizzazione dei diversi livelli di governo.
La flessibilità, infatti, consiste nella possibilità
della differenziazione.
Troppo spesso, invece, viene obiettato che
l'attribuzione di potestà esclusive alle regioni rischia di determinare
disuguaglianze e fratture nel nostro sistema. In realtà, anche (e, per certi
versi, soprattutto) a seguito della riforma del 2001, il nostro sistema è
contraddistinto da una fitta rete di funzioni e competenze che ne assicurano e
consolidano l'unitarietà.
Al contrario, l'argomento utilizzato in
favore del principio di uguaglianza - che nessuno, evidentemente, ipotizza di
mettere in discussione - confonde "uguaglianza" con
"uniformità". In altri termini, l'uguaglianza formale viene anteposta
all'uguaglianza sostanziale. Quest'ultima, invece, non può che essere ispirata
dal principio di adeguatezza: rispetto alle necessità ed alle esigenze che
vengono dal territorio, secondo le sue specifiche realtà e condizioni
storico-sociali.
Il meccanismo predisposto, dunque, si
distingue nettamente dalle disposizioni già vigenti circa le condizioni
speciali di autonomia, realizzabili in base all'articolo 116, terzo comma,
della Costituzione. Infatti, il procedimento complesso introdotto da quella
disposizione costituzionale realizzerebbe un regionalismo differenziato
"calato dall'alto". Il Parlamento nazionale decide sulle forme
speciali di autonomia, in via definitiva ed in ultima istanza, con legge da
approvare a maggioranza assoluta. È un'ipotesi di valorizzazione delle
autonomie, che segue peraltro una logica opposta (dall'alto verso il basso)
rispetto al disegno di legge costituzionale che, caratterizzato da una
direzione inversa (dal basso verso l'alto), interessa materie per le quali le
ragioni delle autonomie, come già ricordato, sono più decisamente avvertite e,
dunque, debbono trovare legittimazione diretta nella Costituzione.