C. 2144 - Delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale

 

Presentato il 28 dicembre 2001

 

RELAZIONE

 

        Onorevoli Deputati! - Introduzione.

        1. Le riforme fiscali possono essere fatte per varie ragioni: per produrre più o meno gettito; per introdurre imposte nuove o per eliminarne di vecchie; per (ri)modulare la progressività; per rendere il sistema fiscale più efficiente o più neutro; per semplificarlo, cercando di ridurre i costi di amministrazione e di adempimento; per adattarlo ai cambiamenti che via via intervengono nella struttura della società e dell'economia, o per concorrere a determinarli.
        Generalmente, una riforma fiscale profonda si fa per più di una, tra queste ragioni. Ad un certo punto, molti Paesi scoprono che il sistema fiscale che li caratterizza, un sistema che si è formato negli anni, non è più capace di raggiungere una quantità sufficiente degli obiettivi desiderati.
        I sistemi fiscali sono come i giardini: hanno bisogno di potatura, di innesti, di cure costanti; talvolta di un nuovo disegno.
        Le riforme fiscali sembrano seguire dei cicli. A periodi di intense riforme, come gli anni ottanta, si alternano periodi, come buona parte degli anni novanta, caratterizzati da scarso interesse alla riforma dei sistemi fiscali. Negli anni più recenti si manifesta un nuovo attivismo: molti Paesi stanno nuovamente riformando, o progettano di riformare, i loro sistemi fiscali.
        Le riforme più recenti, in atto od in progetto, hanno un carattere comune. La concentrazione essenziale sull'ultima, tra le ragioni indicate sopra: sul necessario adattamento dei sistemi fiscali nazionali ad un mondo sempre più aperto e globalizzato: un mondo in cui il capitale e l'impresa non hanno più frontiere. Un mondo tanto nuovo e globalizzato che anche il lavoro, fattore produttivo un tempo poco esposto alla "concorrenza" - almeno in Europa - ora sente, direttamente od indirettamente, in positivo od in negativo, ma comunque in forma sempre più intensa, gli effetti della competizione internazionale.
        In realtà, in un mondo globalizzato, il "particularisme" fiscale non è solo impossibile. E' dannoso. In un mondo globalizzato, il sistema fiscale di un Paese "deve" infatti essere, quanto più possibile, omogeneo ai sistemi fiscali degli altri Paesi. E questo non è un giudizio di valore. E' un dato di fatto.
        In uno scenario sempre più globalizzato, la necessaria standardizzazione, la relativa crescente neutralità dei sistemi fiscali, il loro minore possibile grado di interferenza nelle decisioni delle persone e delle imprese, sono obiettivi politici essenziali. Pretendere l'opposto, non è solo inutile, è peggio. E', si ripete, negativo e distorsivo.
        Con una specifica. L'etica politica, ancora necessaria per le scelte fiscali, non è venuta meno. Nessuna forza spinge l'etica fiscale nel vortice della globalizzazione. Molte forze la stanno piuttosto spostando, progressivamente, dal livello nazionale al livello sopranazionale.
        Esempi di questo processo evolutivo e progressivo si trovano tanto nella "Tobin Tax", proposta dalla sinistra, quanto nella "De-Tax" (o "A-Tax"), proposta qui in alternativa, e comunque già entrata, su nostra iniziativa, nel circuito tecnico-politico internazionale (European Commission. Responses to the chances of globalization. European Report: "More recently, a more voluntary scheme ("de-tax") has been proposed as an alternative source of financing").
        Non solo. Tra gli obiettivi più attuali delle riforme fiscali, c'è l'obiettivo della semplicità. Sempre di più, un sistema fiscale poco comprensibile si configura come un sistema fiscale non buono. E tra l'altro non competitivo.
        E' più o meno così, nel caso dell'Italia.

        2. Si è in specie notato appena qui sopra che, nel tempo presente, le "raison d'etre" di una riforma fiscale sono varie: ragioni di gettito, di equità, di efficienza e di neutralità, di semplicità, di omogeneità verso l'estero, di modernità e di competitività.
        In questa logica si possono fare alcune verifiche, all'interno del caso Italia. Nei termini che seguono.

            A) IRPEF. L'imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) è, all'interno del sistema fiscale italiano, l'imposta principale, tanto quantitativamente, quanto politicamente. Ebbene, si può dire che, pur dopo la "riforma" operata nella scorsa legislatura, l'IRPEF è un'imposta che quantitativamente e qualitativamente soddisfa le ragioni normali tipiche di una buona imposta?
        Quantitativamente, si direbbe di no. L'onere è in effetti eccessivo. E' un'opinione fortemente generalizzata. Lo si può verificare, tra l'altro, leggendo "Il programma dell'Ulivo per il governo 2001/2006" (www.Rutelli2001.it), pagine 55-57. E' un'opinione che condividiamo.
        Qualitativamente, si può ripetere lo stesso ordine di considerazioni negative. L'IRPEF si basa infatti su 5 aliquote. Le deduzioni e detrazioni previste nell'"Unico 2001" sono oltre 80, con migliaia di possibili conseguenti combinazioni.
        Tutto ciò significa che, a differenza degli altri Paesi evoluti, in Italia non c'è un "tax rate" oggettivo, ma piuttosto un "tax rate" fortemente soggettivo, variabile da caso a caso in combinazioni di cifre che si manifestano nella forma di assurde complessità.
        La via della matematica finanziaria alla giustizia sociale, l'utilizzo della "complessità" per il raggiungimento di obiettivi "equitativi", mirati con precisione millimetrica, non può in realtà produrre effetto diverso da una complessità fiscale incrementale.
        Basti qui notare che le modifiche apportate, dalla legge finanziaria per il 2000, agli articoli 10, 12, 13 e 13-bis del testo unico delle imposte sui redditi, si sono manifestate in circa 30 commi.
        E' l'esatto opposto di ciò che suggeriscono la politica legislativa ed il buon senso, considerando il fatto che la dichiarazione dei redditi la devono compilare i cittadini.
        Se il mondo si complica, se la crescente complessità è la cifra dominante dell'esistente, allora la legislazione deve andare in controtendenza. Non deve aggiungere alle complessità del reale nuove complessità artificiali. Ma, all'opposto, e quanto più possibile, deve semplificare.

            B) IRPEG-IRAP. Si può dire che l'imposizione sui redditi di impresa, come è stata riformata nella scorsa legislatura, integra ad un livello sufficiente una o più delle ragioni normali tipiche di una riforma fiscale?
        Pare piuttosto difficile sostenerlo. La coppia imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG) imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) si basa infatti su 4 aliquote e, pur dopo il congelamento di DIT, super-DIT, eccetera, si basa su combinazioni di "tax rate" che variano "in continuum", come in un caleidoscopio.
        Variazioni che non si manifestano solo in funzione del livello di reddito, ma anche: 1) in funzione della capacità patrimoniale dei soci e, per converso, in funzione del pregiudizio contro il debito, anche nei casi normali, in cui la capacità di debito è fisiologicamente e non patologicamente espressa dalla capacità di credito propria dell'impresa; 2) in funzione della natura propria dei fattori utilizzati nel processo produttivo, con pregiudizio fondamentale contro la manodopera, nella logica: più occupazione = più imposta; più robot= meno imposta; 3) in funzione delle più curiose politiche di bilancio: prima si favorisce la capitalizzazione; poi si favorisce asimmetricamente l'opposto e cioè la decapitalizzazione, premiando il "pay out" operato dalla società, con un credito di imposta riconosciuto a favore dei soci verso imposte non pagate dalla società; e così via.
        Una logica in cui non è la fiscalità che si applica alla realtà. Ma l'opposto, dirigistico o favoristico: è la realtà che dovrebbe adattarsi alla fiscalità. La "logica" di IRPEG-IRAP è, in specie, quella del primato della sovrastruttura ideologica sulla struttura produttiva. A parità di struttura produttiva reale, la fiscalità varia in funzione di fattori erratici, prevalentemente ideologici. E ciò tanto nel confronto tra imprese operato "Italia su Italia", quanto nel confronto tra imprese operato "Italia versus estero".
        L'effetto sostanziale è così quello dell'"evoluzione divergente" della fiscalità italiana, rispetto alla fiscalità in essere negli altri Paesi competitori; e dunque di un crescente spiazzamento differenziale competitivo, contro il nostro Paese.

            C) Il caso dell'imposizione sui redditi di capitale. Nella scorsa legislatura, il sistema della fiscalità finanziaria è stato oggetto di notevoli interventi, in gran parte fondati sulle linee guida esposte nel "Libro bianco" per la riforma fiscale, presentato nel dicembre 1994 dal primo Governo Berlusconi. A partire dall'idea dell'imposizione sostitutiva "per masse", presso gli intermediari istituzionali. Idea questa contrastatissima, quando fu proposta, proprio dai successivi legislatori.
        Tuttavia, permangono ancora vistose inefficienze e grossi differenziali negativi.
        In particolare, il sistema fiscale riserva ancora, ed assurdamente, il trattamento più oneroso proprio alle forme più povere di impiego del risparmio: a depositi e conti, bancari e postali.
        Per contro, lo stesso sistema non ha impedito la crescita esponenziale di un fenomeno profondamente negativo, come quello costituito dalla migrazione dei capitali all'estero. Migrazione che costituisce la principale ragione della fortissima asimmetria in essere, evidente in rapporto alla realtà strutturale tipica degli altri Paesi europei, tra 1) dimensione del prodotto interno lordo italiano; 2) propensione al risparmio degli italiani; 3) sottodimensione del sistema bancario e finanziario italiano.
        Vanno ancora aggiunte le distorsioni prodotte dal troppo complesso, e perciò costoso, sistema di calcolo degli imponibili. Come, ad esempio, nel caso del fantastico "equalizzatore".
        In sintesi, si tratta di un sistema che cumula ingiustizie distributive, inefficienze competitive, assurdità applicative.

            D) Infine, il caso della legislazione fiscale. Il volume complessivo delle leggi fiscali in vigore non è quantificabile.
        Per avere un'idea dell'"orgia legislativa", è sufficiente considerare che nel solo quinquennio 1996-2000 sono stati emanati, in materia fiscale, almeno 300 provvedimenti "legislativi".
        E' evidente che non bastano, in questo scenario, le regole sulla "scrittura" delle leggi fiscali che sono state da ultimo introdotte dal pur considerevole "Statuto del contribuente".
        E' piuttosto necessario intervenire, ed in modo radicale, sui "moltiplicatori" delle leggi. Ed in specie è necessario intervenire sui meccanismi che favoriscono la proliferazione incontrollata delle norme, provocando la "paralisi per analisi" del sistema fiscale. Serve un "codice".


1. Articolo 1. - La riforma.

        1.1. Quello esposto appena qui sopra è lo scenario in cui si pone il nostro schema di riforma fiscale. Si tratta di una "bozza aperta". Aperta a tutti i suggerimenti ed emendamenti che, via via, saranno formulati.
        Ma sia consentito un "flashback".

        Il 18 dicembre 1994 fu pubblicato il "Libro bianco" sulla riforma fiscale in Italia. Un volume che sintetizzava un lungo ciclo di studi e che rappresentava, tra l'altro, il tentativo (fortemente anticipatore, sette anni fa) di modernizzare la fiscalità di uno Stato-nazione, dopo l'avvento dell'economia-mondo.
        In specie ed all'essenziale, i princìpi ispiratori di quella (ipotesi di) riforma fiscale erano:

                a) dal complesso al semplice: 8 tasse, un solo codice fiscale. Ciò perché, se le strutture dell'esistente si complicano, le strutture giuridiche devono andare in controtendenza, verso la concentrazione e la semplificazione;

                b) dalle persone alle cose: erosa la sua base di potere originaria (il dominio territoriale chiuso, esercitato sulla ricchezza dello Stato-nazione), l'imposta personale progressiva, se applicata tel quel, finisce per produrre effetti sostanziali opposti rispetto a quelli ideali. In specie, la ricchezza "affluente" sfugge, perché mobile. E perciò, la "progressività" classica finisce per insistere regressivamente sui fattori immobili (salari, pensioni, eccetera). In questo scenario, la progressività, principio morale fondamentale e costituzionale, non può essere rimossa tout court. Va piuttosto ricostruita, in altre forme, tendenzialmente spostando l'asse del prelievo su altri, più oggettivi e stabili, punti di prelievo. In modo da produrre effetti equivalenti o analoghi rispetto a quelli prodotti dalla progressività, nella sua forma originaria;

                c) dal centro alla periferia: un federalismo fiscale basato sul principio politico del budget, con i cittadini che, nei vari livelli in cui si articola l'attività di governo, non più centralizzata in forma monopolistica, possono votare direttamente e congiuntamente su entrate e su uscite. Facendo coincidere quanto più possibile, ad ogni livello di governo, la cosa tassata con la cosa amministrata. L'idea del "budget", alla Tocqueville.

        Le reazioni furono diverse.
        Positiva e sia qui consentito notarlo straordinariamente significativa, fu ad esempio quella del professor Carlo M. Cipolla: "(...)questa lettera è, e vuole essere, una nota di incondizionata ammirazione ed approvazione per il piano (...) presentato per la riforma del sistema e del regime fiscale in Italia. Trovo ammirevole non soltanto l'aspetto tecnico del (...) piano, ma anche il coraggio (...) dimostrato nel presentare il piano stesso, così drastico, così rivoluzionario".
        Ci fu anche polemica politica. E poi un curiosum. Alcune delle idee espresse nel "Libro bianco" (dall'accertamento con adesione, ai vari meccanismi di deflazione del contenzioso, dall'idea della progressività per età, alla tassazione "per masse" del risparmio, eccetera), sono state prima violentemente contestate, ma poi invece riprese, nel corso della successiva legislatura (anche se non ci sentiamo di assumere la completa paternità della loro applicazione tecnica).
        Ebbene, l'impianto di questa nostra riforma riparte proprio da quello del 1994, pur attualizzandolo ed adattandolo, in funzione dei mutamenti nel frattempo intervenuti, nell'economia e nella società.

        1.2. In generale, un sistema fiscale fatto di poche imposte, applicate con aliquote basse su ampie basi imponibili, integra congiuntamente i presupposti della neutralità e della semplicità, dunque della modernità di un sistema fiscale.
        Tutti questi princìpi guidano questa riforma. Una riforma che si concentra su poche imposte, 5 in particolare; amplia le basi imponibili; riduce il numero delle aliquote al più basso livello compatibile con le necessità del gettito; semplifica il sistema e le procedure; introduce più neutralità e più equità.
        I punti politici che essenzialmente caratterizzano questa riforma sono quattro e si articolano come segue.

            A) Viene qui riformata solo la fiscalità "statale". Ciò a causa del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, come "novellata" dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
        Nel nuovo testo costituzionale, la nuova architettura della finanza pubblica è fatta in specie dipendere: (i) dalla preventiva identificazione della fiscalità statale e (ii) dall'iniziativa legislativa statale.
        In questo contesto, la riforma fiscale statale non esclude e non interferisce con una riforma mirata al federalismo fiscale. Ne è anzi il presupposto necessario. Per due ordini di ragioni: 1) per una ragione sistematica: per garantire i flussi di "compartecipazione"; 2) per una ragione politica: per garantire strutturalmente l'alimentazione del fondo di "perequazione".
        Data questa sequenza, il federalismo fiscale può dunque essere sviluppato solo in parallelo ed in progressione, rispetto alla riforma del sistema fiscale statale. Non è una scelta politica. E' ciò che deriva dall'assetto costituzionale attuale.
        L'impegno del Governo è in specie, in questi termini, nel senso di una stretta consequenzialità, logica e cronologica, tra la riforma fiscale statale e l'introduzione del "federalismo fiscale". Questo da sviluppare dunque in coerenza di tempo ed "insieme" con i soggetti politici che devono esserne (ne sono) protagonisti.

            B) Viene qui realizzato il programma elettorale della "Casa delle libertà". Realizzato integralmente, anche se gradualmente, dato lo stato non positivo dei conti pubblici, prodotto dal lungo ciclo elettorale che ha preceduto le elezioni del maggio 2001. E compatibilmente con le criticità che si sono manifestate, all'interno dell'economia mondiale, a causa del terrorismo internazionale.
        Il "contratto con gli elettori", un contratto "per la legislatura", sarà dunque realizzato.
        Con una specifica. La ragione per aliquote IRPEF più basse non è solo una ragione "economica" (più "sviluppo"). E' anche una ragione "politica" ("più libertà").
        Il rapporto tra fiscalità e libertà, come si sviluppa in questa riforma, è in particolare coerente con gli orientamenti costituzionali recentemente espressi dalla Corte di Karlsruhe (la Corte costituzionale tedesca).
        E' anche su queste basi (basi di libertà) che è costruita la nostra idea di riforma dell'imposta personale.

            C) Viene iniziato, a partire dall'idea della codificazione, un processo di radicale "semplificazione" del rapporto fiscale. Un processo che, insieme ad una vastissima gamma di altri interventi, è comunque già stato avviato, nei primi "100 giorni" di attività del Governo. Ancora: più semplicità, uguale più libertà.

            D) Non solo viene radicalmente modernizzata e resa competitiva la fiscalità dei capitali e delle imprese, ma trova spazio crescente la "dimensione etica": favore per la famiglia, per il "non-profit" ed il volontariato, introduzione della "De-Tax" (o "A-Tax"), sotto forma di detassazione dell'1 per cento dei consumi liberamente destinati dai cittadini per finanziare attività eticamente meritevoli.
        A questo proposito, va in specie notato quanto segue.
        La "Tobin Tax" (TT), l'ultimo simbolo ammesso nel Pantheon teoretico della sinistra, può essere non solo discussa, ma anche gentilmente detronizzata. E, alla fine, sostituita dal suo opposto: da una non-tassa, con finalità etica equivalente. Da una "De-Tax" (DT).
        La critica più forte che va fatta alla TT non è una critica economica, espressa "dal lato del mercato".
        E' una critica politica. La TT è infatti progettata come una macchina fiscale "internazionale", destinata a funzionare "a circuito chiuso", dentro il rarefatto dominio dell'"amato-odiato" mercato finanziario.
        Una macchina che dovrebbe essere dirigisticamente governata da un non precisamente identificato "ufficio" etico, che dovrebbe avere competenza a riscuoterla ed a dirigerne i flussi verso finalità meritevoli pianificate.
        Nella storia, una sola macchina fiscale ha in realtà funzionato con efficienza e su vasta scala, fuori dai confini di uno specifico potere sovrano: in Europa, la Chiesa romana.
            "Christus-fiscus", "Fiskus-Kirche", sono le formule che, per tutti i secoli dell'età confessionale, hanno sintetizzato il meccanismo di funzionamento di un'unica colossale e capillare macchina fiscale.
        Ma con una caratteristica specifica. Nell'economia confessionale, prima veniva l'offerta, poi la domanda. Prima l'"al di là", poi le "decime".
        Nell'economia politica della TT dovrebbe invece essere l'opposto: l'invenzione della tassa dovrebbe precedere l'identificazione del servizio da finanziare, la funzione prescindere radicalmente dalla volontà popolare, la tassa legittimare di per sé la funzione.
        Per riscuotere la TT sarebbe in specie sufficiente un dato grado di dispotismo illuminato. Per erogarne il gettito, sufficiente creare un "Politburo" etico.
        In sintesi, la TT pare dunque viziata da un insanabile "deficit" democratico.
        Il principio fondamentale della democrazia è "No taxation without representation". La TT è democraticamente inaccettabile, perché radicalmente priva di una constituency democratica.
        La DT, di cui qui si formula la presentazione politica, funzionerebbe così:

            a) tutti i soggetti che, sul mercato, vendono beni o servizi (negozi, supermercati, eccetera), possono liberamente attivarsi per sviluppare od aderire ad iniziative etiche, private o pubbliche, speciali o generali, nazionali od internazionali (lotta a fame e malattie, sostegno allo sviluppo, eccetera);

            b) se lo fanno, possono offrire ai loro clienti uno "sconto" dell'1 per cento sul prezzo dei loro beni o servizi;

            c) a condizione che il cliente trasformi lo sconto in una "offerta", sottoscrivendo a favore di una tra le iniziative etiche in cui si è impegnato il venditore;

            d) per suo conto, lo Stato rinunzia a tassare lo sconto-offerta così strutturato e si riserva solo una funzione residuale di controllo anti-frode.

        La DT è dunque l'esatto opposto della TT. Non è una tassa, ma una non-tassa. Non solo. Tanto è autocratica la TT, quanto è democratica la DT. Perché il suo campo di applicazione non è limitato al mercato finanziario, ma esteso a tutti i consumi. Perché non è riscossa ed amministrata da un ufficio, ma autogestita da una platea potenzialmente sconfinata di soggetti privati.
        In questi termini, la DT ha chance reali per configurarsi come leva decisiva, per rilanciare nel dominio etico la grande sconfitta del secolo del "welfare": la "filantropia".
        Le possibili critiche alla DT, ad esempio le possibili confusione ed ibridazione tra motivazioni diverse, insieme commerciali ed etiche, possono essere in specie stimate enormemente inferiori rispetto alle sue potenzialità.
        Non si deve temere che si manifestino confusioni od ibridazioni, tra motivazioni commerciali e motivazioni etiche.
        Il consumatore sceglie infatti beni e servizi in funzione delle esigenze e preferenze che questi soddisfano. Esigenze e preferenze che possono essere egoistiche, ma anche altruistiche.
        Soltanto una visione ristretta del comportamento dell'"homo oeconomicus" può indurre a credere il contrario. Non vi è quindi nulla, né di eticamente, né di economicamente scorretto, nel fatto che l'offerta soddisfi congiuntamente esigenze e preferenze diverse.
        Affermare il contrario sarebbe un falso moralismo, che non considera come, in materia di imposizione (e, più in generale, in materia di politiche pubbliche) il corretto criterio è quello dell'"etica delle conseguenze", non quello dell'"etica delle intenzioni".
        Inoltre, la DT corrisponde in pieno al principio di sussidarietà.
        La DT sposterebbe infatti dallo Stato ai cittadini la responsabilità per una serie di iniziative e di servizi che non sono di mercato. Se è vero, come è vero, che il principio fondamentale di ripartizione dei poteri e delle competenze all'interno dell'Unione europea è costituzionalmente quello della sussidiarietà orizzontale e verticale, allora la DT corrisponderebbe perfettamente allo spirito dell'Europa.


2. Articolo 2. - La codificazione fiscale: "e pluribus unum".

        2.1. La legislazione fiscale italiana ha raggiunto un livello quasi assoluto di complessità. Tanto da escludere l'efficacia di nuovi interventi correttivi più o meno puntiformi, comunque "interni" alla massa legislativa. Tanto è infatti elevato il livello di complessità intrinseca del sistema, che questi sarebbero, peggio che inutili, dannosi.
        Si può formulare più o meno lo stesso ordine di considerazioni negative, in ordine all'ipotesi alternativa di tentare una "manutenzione" della normativa esistente. Ad esempio, mirando al suo consolidamento in "testi unici", con l'obiettivo dell'eliminazione di duplicazioni o del chiarimento di significato delle norme controverse. Dopo un po', i testi unici non sarebbero più "unici".
        Infine, non sarebbe di per sé risolutiva (pur se parzialmente, potenzialmente positiva) neppure la scelta della "delegificazione".
        Delegificando non si ottiene infatti una riduzione della complessità, ma solo la sua traslazione dal piano della legge a quello del "regolamento".
        Con la delegificazione cambia la proporzione tra norme primarie e norme secondarie, ma il sistema, nel suo complesso, non diventa più semplice. In assenza di una riforma di struttura dell'ordinamento, l'operazione di delegificazione potrebbe dunque rivelarsi come un'operazione a somma zero: si demoltiplicano le leggi ma, correlativamente, si moltiplicano i regolamenti.
        Non solo. Fare o rifare un regolamento è più facile che fare o rifare una legge. Il meccanismo di produzione dei regolamenti è infatti più flessibile. Cresce, di conseguenza, il rischio che in questo modo sia proprio la delegificazione ad incrementare la produzione normativa.

        2.2. E' per questo che serve qualcosa di diverso. Serve un "codice". Perché è necessario uscire dall'esistente, sostituendo al movimento centrifugo, che ha determinato l'indiscriminata moltiplicazione della produzione normativa, un movimento centripeto, che tenda alla creazione di un polo di attrazione unificante.
        Come il sistema fiscale cambia, nella sua "sostanza" economica, anche per effetto della riforma, così deve cambiare nella sua "forma" giuridica. Forma e sostanza devono trovare un nuovo piano di coincidenza.
        Sul piano sostanziale, il passaggio dal complesso al semplice viene operato unificando, per blocchi di vecchie imposte, l'articolazione dei loro elementi essenziali e delle relative procedure. Ne deriva, a cascata, un effetto automatico di semplificazione.
        Parallelamente, sul piano formale, il passaggio dal complesso al semplice va operato con l'entrata in vigore di un unico codice.

        2.3. Qui in specie si configura l'ipotesi di un "codice": 1) nel senso "tecnico", di legge ordinaria unificata da uniformi scelte metodologiche; 2) nel senso "politico", di legge "autostabilizzante", più certa e più duratura; 3) nel senso "formale" ("morfologico"), di luogo di trasformazione di norme non coordinate e redatte secondo mutevoli standard qualitativi, in norme organiche, sistematicamente collegate tra loro e redatte secondo criteri uniformi; 4) infine nel senso, "derivato dall'illuminismo giuridico", di luogo di semplificazione, ossia di aggregazione di princìpi e istituti, operata in base a scelte "razionali".
        In sintesi, l'obiettivo essenziale, nell'economia di questa operazione di politica legislativa, è quello della certezza del diritto.
        La certezza del diritto è normalmente l'effetto di varie combinazioni di fattori, ma uno dei fattori essenziali, per la certezza del diritto, è specificamente costituito proprio dalla stabilità delle norme.
        Per cominciare, è necessario stabilire un rapporto tra legge e tempo. La legge deve durare nel tempo. E' comune a tutte le civiltà giuridiche la consapevolezza del ruolo "giuridico" del tempo: dai codici simbolici dell'antichità, incisi nella roccia, al motto illuminista secondo cui "la legge, opera della ragione, è una cosa solida e durevole".
        La legge che non dura nel tempo si svilisce, tradisce la sua essenza. Il tempo della legge fiscale dovrà, dunque, essere tanto "lungo" da indurre, nel cittadino ottemperante, la consapevolezza della legge.
        Per questo è fondamentale l'identificazione di princìpi fiscali, formalizzati da norme fiscali di principio.
        La scelta a favore di una legislazione fiscale derivata da (e basata su) princìpi è enunciata espressamente nell'articolo 2 del presente disegno di legge delega. Il codice, come qui è pensato e disegnato, non si limita infatti a raccogliere le norme vigenti, ma "ordina" l'imposizione fiscale sulla base di princìpi generali:

            a) la legge disciplina gli elementi essenziali dell'imposizione, nel rispetto essenziale dei princìpi di legalità, di capacità contributiva, di uguaglianza. I princìpi costituzionali sono il quadro in cui si iscrive la codificazione fiscale. In particolare, il principio di legalità, stabilito dall'articolo 23 della Costituzione, e concretizzato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, costituisce il parametro per la definizione della base legislativa "necessaria" dell'imposizione. Su questa base costituzionale, il riferimento agli elementi "essenziali" della disciplina traccia un confine mobile e/o dinamico, tra norme primarie e norme secondarie, perché consente di attrarre nell'ambito del codice ogni elemento ulteriore che si ritenga di riservare alla legge. Lo spazio della (eventuale, residuale) delegificazione non è così predeterminato in modo rigido;

            b) viene enunciato espressamente il principio di adeguamento delle norme fiscali ai princìpi fondamentali dell'ordinamento comunitario e di rispetto degli obblighi derivanti dai trattati internazionali. Più in dettaglio, per ciò che si riferisce ai trattati internazionali, la norma è stata formulata ripetendo il testo dell'articolo 2, comma 1, della legge 31 maggio 1995, n. 218, recante la riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato. Viene così salvaguardato il principio del pieno rispetto degli obblighi internazionali da trattato, già inseriti nell'ordinamento in funzione delle procedure di adattamento utilizzate (ordine di esecuzione od altro). Ne consegue che le disposizioni del codice non possono essere interpretate in senso novativo;

            c) i princìpi di chiarezza, semplicità, conoscibilità effettiva e irretroattività delle norme fiscali vengono riscritti e trasferiti, dalla sede debole costituita dal cosidetto "Statuto dei diritti del contribuente", verso l'alto, direttamente nel codice. Si tratta di princìpi sulla produzione normativa. E dunque di princìpi che disciplinano i profili formali della "fabbrica della legge". Le norme fiscali non devono essere soltanto chiare, cioè comprensibili. Per il contribuente, l'accessibilità delle norme fiscali dipende anche dalla loro semplicità, cioè dalla loro riduzione ai termini minimi, essenziali. Non solo: le norme fiscali devono essere conoscibili. Non ci si riferisce qui alla conoscibilità astratta della legge, che è assicurata dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, ma anche alla conoscibilità concreta, effettiva della legge. La conoscibilità effettiva può essere agevolata dall'uso dei mezzi di informazione. L'informazione deve essere al servizio della conoscibilità della legge. La conoscenza effettiva della legge è conforme ad un ideale di democrazia compiuta. Bisogna evitare - come scriveva Hegel - che le leggi: "siano appese così in alto da non poter essere lette". Non solo. La conoscibilità effettiva della legge dipende soprattutto dalla struttura e dalla stabilità delle norme fiscali: con la codificazione, le norme fiscali diventano meno numerose, più semplici e più stabili, e conseguentemente è più facile conoscerle. Infine, le norme fiscali non devono essere retroattive. La retroattività, infatti, affievolisce la certezza del diritto, perché pregiudica la stabilità del diritto e impedisce al soggetto di calcolare le conseguenze delle proprie azioni, azzerandone la prevedibilità. Per questo motivo, si intende l'irretroattività in senso ampio, come divieto tanto delle norme fiscali retroattive "proprie", quanto delle norme che modificano la disciplina delle imposte periodiche con effetto dal periodo d'imposta in corso;

            d) è vietata la doppia imposizione giuridica. Il divieto di doppia imposizione è una conseguenza necessaria dei princìpi di uguaglianza nell'imposizione e di giustizia fiscale. Qui il divieto viene assunto nella sua accezione più ampia, comprensiva della doppia imposizione interna e della doppia imposizione internazionale. Per quest'ultima, il divieto ha un effetto impegnativo per lo Stato, nel senso della predisposizione di tutti gli strumenti idonei a garantire i propri contribuenti. Sotto questo profilo, il divieto è del tutto conforme ai princìpi comunitari. L'articolo 293 del Trattato istitutivo della Comunità europea indica infatti come obiettivo specifico l'eliminazione della doppia imposizione fiscale all'interno della Comunità;

            e) il divieto di applicazione analogica delle norme fiscali non è assoluto, ma relativo. E ciò in coerenza con il principio costituzionale di legalità, secondo cui non vi può essere imposizione senza legge. L'applicazione analogica è vietata espressamente solo per le norme che stabiliscono i presupposti soggettivi ed oggettivi dell'imposizione, le esenzioni e le agevolazioni;

            f) in coerenza con il recepimento, nel nuovo codice, tra l'altro, dei princìpi generali già contenuti nello Statuto del contribuente, vengono indicati, tra i princìpi di codificazione, quelli relativi alla tutela dell'affidamento e della buona fede nei rapporti tra contribuenti ed amministrazione fiscale. Per lungo tempo, i rapporti tra fisco e contribuenti sono stati basati sulla reciproca diffidenza (aggravata dalla più generale diffidenza del legislatore nei confronti di entrambi). Un assetto che certo non ha contribuito ad elevare il grado di civiltà proprio del sistema fiscale italiano. In questo contesto, la codificazione del principio di tutela dell'affidamento e della buona fede non costituisce dunque solo una affermazione, ma pone le basi per un rinnovato "rapporto fiscale", rispetto al quale l'idea stessa di codice costituisce un elemento fondante;
            g) dal complesso al semplice, dalla molteplicità all'unità: "e pluribus unum". Con la codificazione, l'attuale frammentazione e moltiplicazione di regimi e di status viene sostituita da predicati giuridici unificanti ed unificati: il soggetto, l'obbligazione fiscale, la sanzione amministrativa, la sanzione penale, il processo. A ciascuno di questi predicati giuridici corrisponde una disciplina unitaria, comune a tutte le imposte. Il processo di unificazione, tipico di un codice, si sviluppa in una logica sistematica: i princìpi e gli istituti vengono disposti organicamente, in modo che ognuno trovi rispondenza in princìpi superiori di carattere generale. Di conseguenza, le norme che disciplinano le singole imposte, pur esprimendone le specificità, devono essere sistematicamente riconducibili ai princìpi ed ai predicati giuridici contenuti nella parte generale del codice;

            h) l'imposta consiste nell'imposta. Questa formula è solo apparentemente ovvia. Il sacrificio che può essere imposto al contribuente, in base all'articolo 53 della Costituzione, consiste infatti solo nella prestazione pecuniaria, non nell'imposizione di oneri e corvées addizionali ed accidentari. Per questo motivo, si enuncia espressamente il principio della minimizzazione del sacrificio del contribuente nell'adempimento di tutti gli obblighi formali e di pagamento. Essendo rapportata al sacrificio del contribuente, la minimizzazione è ad ampio campo: non va limitata al profilo economico, ma deve essere estesa agli aspetti logistici, psicologici, eccetera, dell'adempimento. Ciò significa porre il contribuente al centro del sistema: deve essere il sistema fiscale a ruotare intorno al contribuente, non il contribuente a rincorrere le complessità superflue del sistema fiscale;

            i) la disciplina delle sanzioni fiscali amministrative ha di recente formato oggetto di un'ampia riforma, i cui contenuti hanno però in alcuni casi dato luogo a notevoli criticità e difficoltà applicative. Un punto, su tutti, ha mostrato, e fin dall'inizio, le notevoli criticità prodotte dalla riforma. Si tratta, in specie, del principio di personalità della violazione, in base al quale la sanzione fiscale amministrativa dovrebbe sempre essere applicata nei confronti della persona fisica cui è riferibile la violazione contestata. Ciò anche nel caso in cui il contribuente che ha tratto vantaggio dalla violazione commessa sia una persona giuridica. E' questa una, e non marginale, causa di spiazzamento competitivo negativo del nostro Paese, a vantaggio degli altri Paesi competitori, che non conoscono norme simili. Le distorsioni prodotte da un approccio "ideologico" di questo tipo sono evidenti, anche in considerazione del fatto che le sanzioni fiscali sono in genere commisurate all'imposta evasa; non a caso anche la disciplina vigente prevede una serie di complessi ed articolati temperamenti, rispetto al principio della personalità della violazione. Per eliminare ogni ambiguità applicativa (senza peraltro ridurre la valenza "intimidatoria" propria delle sanzioni), la codificazione delle sanzioni fiscali amministrative si informa al principio di concentrazione della sanzione sul contribuente (sia esso persona fisica o giuridica) che ha tratto "effettivo beneficio" dalla violazione. Ciò anche per ripristinare una stretta connessione tra punizione ed indebiti vantaggi connessi all'evasione fiscale, in modo coerente con la disciplina sulla responsabilità delle persone giuridiche per alcuni reati, recentemente introdotta dal decreto legislativo n. 231 del 2001;

            l) anche la disciplina delle sanzioni fiscali penali è stata di recente oggetto di interventi riformatori, non del tutto razionali e coerenti. Va in particolare notato che la rilevanza penale dell'evasione fiscale è (va) strettamente connessa al danno prodotto all'erario (non a caso diverse figure di reato sono punibili solo al superamento di soglie definite). In questo contesto, ferma restando l'applicazione delle sanzioni amministrative nella misura prevista dalla legge, pare razionale che sia esclusa la punibilità delle condotte che "non" hanno dato luogo ad un effettivo danno erariale.
        Su queste basi, si ritiene tra l'altro coerente ed opportuno potenziare gli effetti penali di quei fatti (essenzialmente riconducibili alle varie forme di definizione spontanea e/o concordata degli accertamenti fiscali ) che - essendo idonei a rimuovere il danno erariale - devono conseguentemente essere idonei a rimuovere o ridurre anche la punibilità in sede penale. Ciò anche allo scopo di non svilire la portata di istituti deflativi - quali il concordato e la conciliazione - che sono essenziali per un efficiente funzionamento del prelievo fiscale. L'accesso al concordato ed alla conciliazione non potrà comunque essere ammesso, in presenza di fatti gravi e qualificati. E' per contro evidente che tutto ciò non potrà ridurre, dovrà anzi determinare una maggiore attenzione alle forme più gravi di evasione fiscale (si pensi ai delitti di falso e di frode).
        Nel comma 2 dell'articolo 2 del presente disegno di legge delega viene infine introdotto il principio della deroga espressa per le disposizioni del codice, secondo le procedure "rinforzate".
        Non si tratta di una "blindatura procedurale", per rendere immodificabili le norme fiscali, ma di una sorta di meccanismo d'allarme.
        Nella prospettiva della maggiore stabilità del sistema fiscale, il principio della deroga espressa non esclude, infatti, la modifica, ma la casualità e l'estemporaneità della modifica. Come l'attività originaria di codificazione, così anche la successiva "manutenzione" ed evoluzione delle norme del codice devono essere operate nella logica del sistema.


3. Articolo 3. - La riforma dell'IRPEF.

        3.1. L'imposta sul reddito.

        L'articolo 3 riforma l'imposta centrale nell'economia politica del nostro sistema fiscale: l'imposta personale sul reddito delle persone fisiche. Questa diviene, semplicemente: imposta sul reddito.
        La riforma si concentra in particolare su quattro elementi fondamentali dell'imposta: i soggetti passivi; il campo di applicazione; il modo in cui si passa dalla base imponibile al calcolo dell'imposta; le aliquote.
        In particolare:

            a) soggetti passivi. Accanto alle persone fisiche, divengono soggetti passivi di questa particolare imposta, e non più dell'IRPEG, le persone morali e gli enti non commerciali. Questi soggetti acquisiscono così uno "status" fiscale più coerente con la loro funzione sociale e l'IRPEG diventa, per differenza, imposta sulle società. Sul modello della "Corporate Tax", consolidato negli altri Paesi evoluti;

            b) campo di applicazione dell'imposta (imponibile). Si prevede un incremento dell'imponibile soggetto ad imposta personale progressiva, per effetto dell'inclusione di parte degli utili percepiti e delle plusvalenze realizzate, fuori dall'esercizio di impresa, su partecipazioni societarie qualificate. Restano invece fuori dal campo di applicazione dell'imposta sul reddito i redditi di natura finanziaria, la prima casa, eccetera;

            c) determinazione dell'imponibile e calcolo dell'imposta. Attualmente la sequenza di calcolo dell'IRPEF è articolata in 4 fasi:

            calcolo dell'imponibile;

            deduzioni dall'imponibile;

            calcolo dell'imposta;

            detrazioni dall'imposta.

        Con la riforma si elimina la quarta fase. Con la riforma si prevede in specie che le aliquote si applichino dopo che la base imponibile è stata ridotta, via deduzioni basate sui valori fondamentali di cui è prevista tutela nella Costituzione, tra cui domina un minimo non imponibile stabilito in funzione della soglia di povertà. Le deduzioni sono poi concentrate sui redditi bassi e medi, producendo in questo modo un notevole effetto di progressività;
            d) aliquote. Si prevedono 2 sole aliquote: 23 per cento, fino a 100 mila euro (200 milioni di lire); 33 per cento, oltre. Si innova dunque in profondità rispetto all'attuale sistema a 5 aliquote, passando a: 1) uno "scaglione ampio" di base (con estremo inferiore situato nel punto in cui le deduzioni cessano di operare, ed estremo superiore, pari a 100 mila euro), su cui si applica un'aliquota contenuta; 2) uno scaglione sul residuo (con estremo inferiore pari a 100 mila euro ed estremo superiore pari all'imponibile individuale dichiarato), su cui si applica un'aliquota pari a circa un terzo del reddito, che diviene così il limite massimo del prelievo.

        3.2. L'analisi politica di questo nuovo "disegno" fiscale può essere articolata come segue:

            a) invertendo una tendenza in atto, viene razionalizzata e rafforzata la progressività dell'imposta personale, in termini di rilievo specifico di questa particolare forma di imposizione sulla progressività dell'intero sistema, che costituisce un valore costituzionalmente riconosciuto con due movimenti:

                1) viene allargata la "base imponibile" su cui insiste la progressività. In specie, in coerenza con lo standard europeo, la progressività viene "estesa" includendo componenti di reddito (dividendi e "capital gains" qualificati), che sono fortemente significative, in termini di fondamento reale della "capacità contributiva";

                2) si opera un forte "trade-off", tra aliquote (che vengono realmente ridotte) e deduzioni (che vengono modulate in funzione di una reale progressività). Viene in questo modo introdotta una forma di progressività fiscale molto più coerente ed integrabile con l'altra grande tecnica di progressività nell'intervento pubblico, quella che prevede la modularità in funzione crescente del reddito reale, per il pagamento di dati servizi pubblici e per l'accesso a dati sussidi-trasferimenti. Ciò a favore dei redditi bassi e medi effettivi;

            b) con lo "scaglione ampio" alla base, la progressività si concentra sugli estremi della distribuzione del reddito. Sulla parte centrale, la progressività delle aliquote tende in specie a ridursi, per effetto dell'aliquota unica del 23 per cento, fino a 100 mila euro. Va in più analiticamente notato che, sui redditi bassi e medi, la progressività delle aliquote è sostanzialmente integrata dalla progressività delle deduzioni. All'estremo opposto, sui redditi superiori a 100 mila euro, la progressività si manifesta in due forme: con il passaggio all'aliquota superiore del 33 per cento; con la sostanziale assenza di deduzioni. La combinazione della clausola di salvaguardia con la meccanica delle deduzioni esclude in radice "effetti scaletta". L'incidenza fiscale si riduce conseguentemente per tutti i contribuenti. Lo "scaglione ampio" è coerente, tra l'altro, con il modello inglese. Rispetto a questo si ha non solo similarità di impostazione, ("scaglione ampio"), ma anche similarità nell'idea di un'aliquota basica. La sfiducia in una progressività formale molto articolata sulle classi medie è in specie condivisa da tutta la grande tradizione italiana di scienza delle finanze (Antonio De Viti de Marco, Luigi Einaudi, Ezio Vanoni, Sergio Steve), che contempera il principio della capacità contributiva con il principio del beneficio. In specie, con il principio secondo cui l'imposizione deve rendere al massimo l'idea della "cosa amministrata" che va a finanziare. Risultato che si ottiene solo se la capacità contributiva e la progressività dell'imposizione mirano alla "giustizia grossa" (Einaudi), e non alla redistribuzione millimetrica tra redditi, seguendo la via della matematica finanziaria alla giustizia;

            c) prima di procedere nell'analisi, e per prevenire la demagogia, va fondamentalmente notato che l'aliquota del 23 per cento riguarderebbe il 99,5 per cento dei contribuenti (che sono 29,4 milioni: dati SOGEI, 1999). Si tratta dunque, sostanzialmente, di quasi "tutto l'universo" dell'IRPEF! Fuori, e "beneficiati" dall'aliquota del 33 per cento, resterebbero invece solo 143.000 contribuenti, pari allo 0,5 per cento dei contribuenti! Non ha dunque (non avrebbe) senso, in questo contesto, l'obiezione demagogica secondo cui l'aliquota del 33 per cento sarebbe troppo bassa, producendo un "favore per i ricchi". A parte che l'ipotesi di un'aliquota addirittura unica e molto bassa è stata formulata proprio dalla Curia di Milano, fuori dalla demagogia basta leggere le liste delle dichiarazioni annuali dei redditi, pubblicate e presentate dai precedenti governi, come simbolo dei loro sforzi legislativi ed amministrativi per una fiscalità divenuta davvero giusta dopo tanti anni di governo, per prendere atto del fatto che "i ricchi non sono più qui"; perché i redditi più affluenti hanno natura diversa dai redditi normalmente soggetti all'IRPEF;

            d) con questa struttura impositiva scompaiono in radice le forme di progressività e di "fiscal drag" che penalizzano sistematicamente la "famiglia". Dato il nuovo disegno fiscale, piatto e tuttavia mirato al sostegno della famiglia, "non" è dunque più tecnicamente necessario il ricorso ai tradizionali rimedi anti-inflazione e pro-famiglia ("quoziente familiare", eccetera). Infatti:

                1) lo "scaglione ampio" alla base, con aliquota basica del 23 per cento, elimina alla radice e sostanzialmente ogni problema di "fiscal drag", per la quasi totalità dei contribuenti;

                2) la concentrazione delle deduzioni sulla dimensione sociale, e qui a partire dalla famiglia, e sulle famiglie, con redditi bassi e medi, trasforma fortemente e proprio in favore della famiglia il sistema italiano dell'imposizione personale. In specie, il soggetto principale di riferimento non sarà più, come finora, l'individuo, con la famiglia come opzione; ma la famiglia, come soggetto centrale, anche nell'economia fiscale;

            e) la nuova struttura dell'IRPEF mira, nella forma della riduzione delle aliquote e della semplificazione, ad un nuovo rapporto tra "fiscalità" e "libertà". In linea con il "decisum" della Corte costituzionale tedesca, secondo cui il reddito deve essere tutelato, come strumento per la libertà personale e il "risparmio fiscale" viene prima dell'assistenza sociale (Steuerverschonung geht vor Sozialleistung). La possibilità dell'auto-sostentamento è di conseguenza prioritaria, rispetto all'assistenzialismo statale. Perché le risorse "ricevute" dallo Stato (alias "concesse" graziosamente dallo Stato, sotto forma di detrazioni ammesse) non comunicano lo stesso grado di libertà nell'uso delle risorse autonomamente guadagnate. La Corte costituzionale tedesca ha così finalmente rovesciato la vecchia concezione dei diritti sociali, costruita più sul paternalismo che sull'effettiva tutela. Nella concezione paternalistica, si trasforma un cittadino, che senza la pressione fiscale disporrebbe di risorse proprie, in un "assistito". Lo Stato, con un'elevata imposizione fiscale, priva il cittadino dei mezzi necessari per le sue spese inevitabili (dal mantenimento, all'educazione). E poi gli riconosce detrazioni o gli concede sussidi (assegni familiari, eccetera). Viene così lesa la dignità personale, che pure è un principio costituzionale fondamentale. Si costringe infatti un cittadino, che avrebbe le risorse per provvedere autonomamente alle proprie esigenze, a dover compilare moduli, a sottostare a controlli, a subire "vessazioni" burocratiche. In questo modo è anche ridotta, soprattutto per le classi meno abbienti, la libertà di scelta tra servizi pubblici e servizi privati, perché le risorse "restituite" spesso non possono più essere utilizzate o destinate senza vincoli imposti "dall'alto";

            f) l'attenzione per la dimensione sociale, nella forma della "sussidiarietà", si manifesta anche nella scelta di trasferire le persone morali e gli enti non commerciali, dall'IRPEG (dove finora sono stati accatastati), nel catalogo dei soggetti passivi dell'imposta personale. L'effetto finale è doppio. L'IRPEG diventa imposta sulle società, come negli altri ordinamenti evoluti. Di riflesso, l'imposta sul reddito, estendendosi oltre le persone fisiche, assume la piena caratterizzazione di imposta che riguarda tutti i soggetti che producono reddito e risorse, soprattutto per famiglia, consumo, risparmio-sicurezza, benessere;

            g) nella delega è previsto il potenziamento e l'ampliamento degli "studi di settore". Lo "scaglione ampio" del 23 per cento rappresenta in particolare la sinergia ideale con questa scelta, in termini di reale possibilità di recupero dell'evasione. E' evidente infatti che la resistenza delle imprese soggette all'imposta personale, riguardo all'adeguamento alle indicazioni degli studi di settore, dipende principalmente dal fatto che l'eventuale maggiore imponibile verrebbe colpito con aliquote alte, per lo più non sentite come giuste dal contribuente. Ora invece per quasi tutte le imprese varrà la regola che il costo dell'incremento è certo, e non è grande: il 23 per cento. Il successo dei nuovi studi di settore, reso più probabile anche da altre innovazioni introdotte nella delega, in particolare riguardo all'imposta sul valore aggiunto (IVA), può rappresentare la realizzazione della vera giustizia. E cioè della "giustizia grossa"; quella che separa chi paga da chi non paga;

            h) c'è infine un nesso, tra "semplicità" e "civiltà" del rapporto fiscale. E' in specie evidente che, rispetto all'attuale, il sistema fiscale riformato (2 aliquote, solo deduzioni, concordato fiscale preventivo, studi di settore efficienti, eccetera) sarà caratterizzato da un elevatissimo grado di semplicità e dunque di civiltà del rapporto fiscale.

        3.3. Ne deriva quella che sembra definibile come una "giusta imposta".
        Per alcuni, la giusta imposta non esiste. O meglio: per alcuni sono giuste "tutte" le imposte. Giuste, per il solo fatto che sono "imposte" dallo Stato.
        In questa visione c'è una oggettiva coerenza.
        Infatti, per alcuni lo Stato sta "in alto" e le persone stanno "in basso". E' dunque "naturale" che le imposte siano pagate allo Stato, per il semplice fatto che lo Stato "c'è", sopra le persone. E non perché lo Stato "fa" qualcosa, a favore delle persone.
        E' per questa stessa ragione che, per alcuni, non c'è un "limite" all'imposizione, se non quello "democraticamente" stabilito dallo Stato. Alias, stabilito da quella degenerazione, prima dogmatica e metafisica, poi politica e burocratica, che viene legittimata con la finzione organicistica: "lo Stato siamo noi".
        Ma la persona, nella sua dignità universale e nella sua naturale capacità di rapporto sociale, sta "sopra" lo Stato, che non è un fine, ma un mezzo.
        In questa visione, se "politicamente" prima dello Stato vengono le persone, "economicamente" prima dello Stato vengono il "lavoro" e la "proprietà".
        E' per questo che, nella nostra visione, il limite naturale, fondamentale e costituzionale dell'imposizione fiscale è rappresentato dal "lavoro" e dalla "proprietà privata", basi fondamentali della "libertà" della persona e della "ricchezza" della nazione.
        Il diritto ai "frutti" del lavoro e della proprietà è dunque un diritto "originario" e "primario".
        Un "diritto" che va certo "combinato" con il "dovere" fiscale, ma che non può essere "compresso" o "sacrificato" dal dovere fiscale, oltre una certa "misura".
        In questi termini, la logica ed il titolo del prelievo fiscale cambiano radicalmente. L'imposizione fiscale non può essere "illimitata" e non può essere basata "solo" sul principio del "sacrificio" (solidaristico), ma anche sul principio del "beneficio" (commutativo).
        Se si parte "dal basso" e non "dall'alto", se non si crede che devono essere le "imposte" ad inseguire le spese pubbliche, ma viceversa; se il presupposto del prelievo non è quanto "serve" allo Stato, ma quanto può "dare" il privato; se non si ha una visione autoritaria dello Stato, che "può" imporre quanto "vuole"; se insomma si accetta il principio del "limite" all'imposizione, costituito dal rispetto del "lavoro", della "proprietà", e dei "frutti" che ne derivano, è evidente che la misura della giusta imposta dipende unicamente dal "consenso" dei cittadini. Da quanto i cittadini sentono giusto di dover pagare allo Stato a titolo d'imposta sui "frutti" del loro lavoro e della loro proprietà.
        Il primo esercizio da fare, per determinare con questo criterio la "giusta imposta", è dunque essenzialmente politico.
        L'imposta non può essere solo l'espressione del "potere statale", ma anche e soprattutto il segno del "consenso sociale".
        Per questo la misura dell'imposta "non" può essere "odiosa".
        Per esempio, è difficile considerare non odioso un prelievo fiscale complessivo pari al 65 per cento sui frutti del lavoro di una piccola impresa. Od un prelievo fiscale complessivo pari al 121 per cento del reddito di una casa.
        Si obietterà che questo non è un esercizio "serio", che si tratta solo di "psicologia". E' vero che si tratta di psicologia.
        Ma è un esercizio serio e necessario. Se il problema politico è quello del "consenso", se il consenso sulle imposte è considerato come una della basi originarie e fondamentali della "democrazia", allora si converrà che la ricerca del consenso sull'imposta è un esercizio "politico". Politico, nel senso nobile del termine.
        In particolare, alla ricerca della "giusta imposta", è giusto partire dall'imposta sul "reddito prodotto".
        Dall'imposta sul reddito prodotto tanto dalle persone, quanto dalle imprese. E cioè da quel tipo di imposta che, per la sua particolare natura, per la sua storia e per la sua funzione, concentra in sé, rispetto alle altre forme di imposizione, la più alta "cifra" politica.
        Nel Vecchio Testamento (Primo Libro di Samuele, 8: 11-17), Samuele attribuisce al Re il diritto alla decima parte del prodotto.
        Tra l'idea dell'imposizione fiscale illimitata e la simbologia della decima, a noi pare che il "punto-limite" possa ora essere costituito e rappresentato dal terzo: dalla terza parte del reddito prodotto.
        In realtà, stabilito nel terzo il "punto-limite" dell'imposizione, è possibile:

                a) "escludere" dall'imposizione fiscale, ponendoli in una "no tax area", che può e deve essere "più vasta dell'attuale", i "redditi bassi", la "casa", la "famiglia", la "vecchiaia", la "spesa sociale", il non-profit;

            b) per la parte di reddito che supera la "no tax area", introdurre un'aliquota basica del 23 per cento, concentrata sul ceto medio e sulle piccole imprese.

        In questo modo il sistema trova un naturale equilibrio tra i due poli, dell'efficienza e della giustizia, perché:

            a) l'aliquota basica (che per l'estensione del suo campo di applicazione si configura di fatto come aliquota unica), allentando la presa fiscale, da un lato fa respirare l'economia e la rilancia; dall'altro lato, riduce l'evasione, rendendola meno conveniente e meno giustificabile;

            b) l'imposizione resta comunque progressiva, per tre ragioni: 1) per effetto dell'abbattimento alla base prodotto dalla previsione di una vasta "no tax area"; 2) per effetto della concentrazione delle deduzioni sui redditi bassi e medi; 3) per effetto dell'aliquota, marginale e limite, del 33 per cento, prevista per la fascia di reddito superiore (oltre i 100.000 euro).

3.4. Il regime fiscale sostitutivo per i redditi di natura finanziaria.

        Nel corso degli ultimi anni il sistema finanziario italiano ha subito profonde trasformazioni. Dal 1994 al 2000 la ricchezza finanziaria degli italiani è passata da circa 4,6 a circa 8,2 milioni di miliardi di lire. Nello stesso periodo si è inoltre manifestata una forte ricomposizione dei portafogli dei risparmiatori, connessa (i) da un lato all'esplosione del fenomeno del risparmio gestito (le quote di fondi comuni detenute da residenti, nello stesso periodo, sono passate da circa 127 mila miliardi a circa 1 milione di miliardi di lire); (ii) dall'altro lato, al sempre maggiore interesse verso i titoli azionari e le attività finanziarie estere.
        A questi dati va aggiunto quello - macroeconomico e strategico - relativo alla "migrazione" all'estero di capitali di origine italiana.
        I mutamenti rendono necessari interventi di riforma per garantire, con l'uniformità del prelievo, equità, semplicità e competitività del sistema della fiscalità finanziaria italiana.
        La riforma verrà coerentemente realizzata sulla base dei criteri direttivi esposti nell'articolo 3, comma 1, lettera c). Verranno adottate modalità procedurali uniformi, attraverso l'estensione del sistema di prelievo alla fonte, con imposta sostitutiva proporzionale, a tutti i redditi di natura finanziaria, indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato per produrli, dalla durata dell'investimento, dalla natura dell'emittente, ma fatta eccezione per i proventi derivanti, alle persone fisiche e morali non imprenditori, da partecipazioni qualificate (dividendi, utili e plusvalenze), da contratti di associazione in partecipazione e da mutui, che saranno soggetti, in tutto o in parte, all'imposta progressiva.
        Il sistema dell'imposizione sostitutiva delle imposte sul reddito è, in specie, in linea con le scelte adottate dal legislatore, a partire dalla riforma fiscale del 1971.
        Quest'ultima ha compreso i redditi di capitale nel dominio dell'imposizione personale, coerentemente con i princìpi teorici di onnicomprensività del prelievo e di commisurazione dell'imposta personale sul reddito alla capacità contributiva dei soggetti passivi.
        In realtà, in funzione della scelta di favorire il risparmio, prevista dallo stesso dettato costituzionale (articolo 47 della Costituzione), il legislatore aveva adottato - ed ha confermato nei diversi interventi normativi che si sono succeduti, sulla materia - il sistema alternativo prevalente del prelievo proporzionale attraverso la ritenuta definitiva alla fonte, sostanzialmente sostitutivo dell'imposta sul reddito per la maggior parte dei redditi di capitale.
        L'estensione del regime di imposizione sostitutiva dei redditi di natura finanziaria consente ora di concretizzare uno dei vantaggi competitivi del nostro ordinamento, rispetto a quelli di altri Paesi dell'Unione europea.
        Si propone, in specie, quanto segue:


                a) verrà data piena attuazione ai princìpi di generalità e di neutralità del prelievo, attraverso la omogeneizzazione dell'imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria. A differenza del passato, si intende in questa sede abbandonare la distinzione normativa fra le categorie dei redditi di capitale e dei redditi diversi, fonte di segmentazioni di mercato, a favore dell'adozione di un'unica categoria di redditi finanziari, indipendentemente dalla natura del soggetto emittente, dalla durata e dallo strumento utilizzato per produrli, comprendente i proventi di qualunque fonte. In essa dovranno rientrare, in particolare, non solo i proventi derivanti dall'impiego di capitale (ad esempio, gli interessi e gli scarti di emissione da titoli obbligazionari, gli utili da partecipazione in società di capitali, eccetera), ma anche i proventi caratterizzati da elementi di aleatorietà, spesso consistenti in un differenziale. Quali, ad esempio, le plusvalenze da cessione ed i proventi dei contratti derivati. L'attuale definizione puntiforme delle singole tipologie di redditi di capitale e diversi sarà, a questo fine, sostituita da norme definitorie di tipo generale, in grado di comprendere tutte le tipologie di proventi e di escludere in radice gli effetti di fuorigioco del sistema fiscale, prodotti dalle continue innovazioni delle forme contrattuali;

                b) l'attuale modello di tassazione dei titoli pubblici, con riferimento sia alla natura e alla misura del prelievo, che alle modalità di tassazione, pare già sostanzialmente allineato ai criteri di generalità e di uniformità che ispirano la presente riforma.
        La magnitudine del debito pubblico italiano e la diffusione del suo collocamento presso investitori esteri suggeriscono di mantenerne invariato il relativo regime fiscale. Il regime del debito pubblico sarà quindi, per le citate ragioni di omogeneità, esteso a tutte le altre tipologie di redditi di natura finanziaria in portafoglio delle persone fisiche e degli enti non commerciali, fatta eccezione per i proventi derivanti da partecipazioni qualificate (dividendi e plusvalenze), la cui tassazione è disciplinata dalla prima parte dell'articolo 3.
        L'estensione riguarderà sia gli aspetti procedurali, con l'applicazione generalizzata del sistema di imposizione sostitutiva, che il livello di prelievo, con l'adozione di un'aliquota unica.
        I dividendi derivanti da partecipazioni non qualificate saranno sempre assoggettati al prelievo alla fonte a titolo definitivo, restando in ogni caso preclusa la possibilità di imposizione progressiva, alla quale saranno invece soggetti, seppure parzialmente, i dividendi da partecipazioni qualificate, come disciplinato dalla lettera b) del comma 1 dell'articolo 3. Sarà coerentemente eliminato, in ogni caso, l'attuale sistema del credito d'imposta, in linea con le tendenze in atto negli altri Paesi europei, dalle quali emerge la graduale eliminazione dei sistemi di imputazione piena o parziale (cfr. Quadro A), e tenuto conto della riduzione delle aliquote di prelievo sulle società.

Quadro A



LA TASSAZIONE DEI DIVIDENDI PER LE PERSONE FISICHE RESIDENTI NEI PAESI DELL'UE

 

Austria RD 25

Belgio RA/RD 15-25

Danimarca RA/RD 28-43

Finlandia RD 29 + CI

Francia P + CI

Germania RA 21.1 + esenzione 50

(dal 2002)

Grecia NI

Irlanda RA 20

Italia RD 12.5/P + CI

Lussemburgo RA 25 + esenzione 50

Paesi Bassi 1,2 valore patrimonio

Portogallo RD/RA 12.5 - 25 + CI

Regno Unito TS 10 - 32.5 + CI

Spagna RA 18 + CI

Svezia TS 30


Legenda: RD = Ritenuta Definitiva; RA = Ritenuta Acconto; P = Tassazione Progressiva; CI = Credito d'Imposta; NI = Non Imponibile; TS = Tassazione Separata.

        L'unificazione delle aliquote comporterà l'allineamento al livello di prelievo dei titoli pubblici per i proventi oggi tassati al 27 per cento (cfr. Quadro B). Si tratta, in particolare, dei proventi derivanti da: depositi bancari e certificati di deposito; titoli di emittenti privati con durata inferiore a diciotto mesi; obbligazioni con rendimento non allineato ai parametri di legge; accettazioni bancarie; titoli atipici. Infine, l'introduzione di una normativa sulla "thin capitalization", basata sullo standard europeo, tendente a limitare la deducibilità degli interessi passivi sui finanziamenti nell'ipotesi di un eccessivo ricorso alla leva finanziaria, renderà non più necessario un sistema di prelievo penalizzante in capo all'investitore su strumenti con i quali si tende a trasformare gli utili da partecipazione, indeducibili in capo alla società, in interessi.
        Per evitare indesiderati effetti di segmentazione di mercato (sia dal lato dell'offerta, che dal lato della domanda), il passaggio all'aliquota unica dovrà essere immediato: la modifica opererà cioè con riferimento ai proventi derivanti sia dagli strumenti di nuova emissione, che da quelli già in circolazione, percepiti successivamente all'entrata in vigore della normativa delegata;

                c) per il risparmio affidato in gestione a investitori istituzionali si adotta un nuovo sistema, basato sulla tassazione dei redditi all'atto del realizzo da parte dei risparmiatori, in linea con quanto è, di norma, negli altri ordinamenti (cfr. Quadro C), sia periodicamente, che all'atto del riscatto. Il ripristino del criterio di tassazione sul realizzato, che uniformerà la tassazione dei proventi derivanti dalle gestioni con quelli derivanti dall'investimento diretto, si rende necessario per evitare l'applicazione del prelievo su imponibili fittizi, in periodi di mercati in rialzo, e la creazione di crediti d'imposta "virtuali", in periodi di mercati in flessione.

Quadro B

 

ATTUALE TASSAZIONE DEI REDDITI DI NATURA FINANZIARIA

(PERSONE FISICHE E SOGGETTI EQUIPARATI RESIDENTI)

 

... (omissis) ...


Legenda: RA = Ritenuta a titolo d'acconto; CS = Cedolare Secca (Ritenuta a titolo definitivo o imposta sostitutiva).

Quadro C

 

REGIME FISCALE DELLE GESTIONI COLLETTIVE

IN ALTRI PAESI EUROPEI

a) regime fiscale degli OICR di diritto interno

 

... (omissis) ...

 

Segue Quadro C

 

b) regime fiscale dei sottoscrittori

 

... (omissis) ...

        In particolare, in capo agli organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR) non sarà più applicato alcun prelievo, né annualmente né all'atto della percezione dei proventi periodici e delle plusvalenze (questi continueranno, dunque, ad essere considerati soggetti cosiddetti "lordisti").
        Il prelievo, di tipo proporzionale e sostitutivo delle imposte sui redditi, sarà infatti applicato, a cura della società di gestione, sui proventi periodici all'atto della loro distribuzione; ovvero, in caso di riscatto o di cessione delle quote da parte dei partecipanti, sulla differenza tra l'importo incassato all'atto del riscatto o della cessione delle quote e il prezzo pagato per la sottoscrizione o per l'acquisto delle medesime.
        La base di imposizione sarà quindi unica, formata dalle componenti positive e negative realizzate dal sottoscrittore nel periodo di detenzione delle quote.
        La tassazione sarà operata con l'aliquota prevista in via generale per i redditi di natura finanziaria e non sarà necessario, diversamente da quanto è in altri ordinamenti, individuare le singole componenti reddituali (interessi, dividendi, plusvalenze, eccetera) che hanno generato il reddito, prodotto dall'OICR ed incassato dal risparmiatore.
        Le minusvalenze eventualmente realizzate dal sottoscrittore per effetto della partecipazione all'OICR potranno essere compensate, al pari delle altre minusvalenze conseguite dal risparmiatore (ad esempio: su titoli azionari), con le plusvalenze realizzate.
        L'adozione del nuovo sistema consentirà di superare gli inconvenienti connessi con l'attuale meccanismo di tassazione sul maturato: in primo luogo, i proventi realizzati dall'OICR, ma non distribuiti ai partecipanti, potranno essere reinvestiti al lordo di imposte, traducendosi - a parità di altre condizioni - in rendimenti più elevati; in secondo luogo, in periodi di mercati flettenti, sarà possibile evitare la formazione di poste illiquide nell'attivo patrimoniale degli OICR, rappresentate dai crediti d'imposta "virtuali" derivanti dal diritto di riportare in avanti i risultati negativi di gestione maturati.
        Sul piano delle condizioni concorrenziali rispetto alle gestioni estere, il passaggio al sistema di tassazione sul realizzato per le gestioni collettive di diritto italiano contribuirà ad aumentare la competitività del sistema finanziario italiano su due fronti: 1) uniformando le modalità di tassazione degli OICR italiani a quelle dei fondi esteri armonizzati, viene eliminata l'attrattiva esercitata da questi ultimi sugli investitori italiani, per effetto della tassazione secondo il principio del "realizzato", attrattiva accentuatasi in misura notevole a seguito della recente abolizione dell'"equalizzatore"; 2) si migliora l'appetibilità dei fondi di diritto italiano per gli investitori non residenti, che non subiranno più alcun prelievo alla fonte e conseguentemente non dovranno più sottostare ai tempi di rimborso dell'imposta.
        La riforma eliminerà anche le distorsioni esistenti tra i sistemi di tassazione degli OICR italiani e dei prodotti assicurativi a carattere finanziario (contratti di capitalizzazione, assicurazioni sulla vita, polizze unit e index linked). I redditi derivanti da questi ultimi, infatti, sono attualmente tassati soltanto nel periodo d'imposta in cui vengono percepiti dal beneficiario, senza l'applicazione dell'equalizzatore.
        Il descritto regime fiscale del risparmio gestito sarà applicabile esclusivamente alle gestioni collettive effettuate da investitori istituzionali. Per le gestioni individuali di patrimoni, in cui la titolarità degli strumenti finanziari rimane comunque in capo al soggetto gestito, sarà previsto che i princìpi di cassa e di compensazione saranno ovviamente attuati (a cura degli intermediari) con riferimento ai proventi delle attività che compongono il patrimonio affidato in gestione, incassati o realizzati in un determinato periodo di tempo. Verrà peraltro mantenuto fermo l'ordinario regime fiscale di cassa e di compensazione per le attività finanziarie affidate in amministrazione agli intermediari.
        Come per tutte le modifiche introdotte con la presente riforma, è prevista l'emanazione, con uno o più decreti legislativi, di disposizioni correttive per il coordinamento delle disposizioni vigenti con quelle derivanti dalla riforma;
                d) motivazioni di carattere economico, sociale, ordinamentale impongono che l'imposizione fiscale sul risparmio previdenziale, ivi compreso quello che affluisce alle casse di previdenza privatizzate, sia basata su criteri di favore, rispetto a quella del risparmio finanziario, con regimi differenziati a seconda delle tipologie. Anche con riferimento a ciò che accade in altre realtà dell'Unione europea, il sistema di imposizione dei fondi pensione e delle altre forme di risparmio previdenziale non deve più essere basato su di un paradigma del tipo esenzione - tassazione - tassazione (cosiddetto "schema ETT", cioè esenzione dei contributi versati al fondo, tassazione dei redditi derivanti dall'investimento, tassazione delle prestazioni), ma su una sequenza esenzione - esenzione - tassazione (EET), nella quale i redditi derivanti dall'investimento non siano tassati, quantomeno sino al momento in cui l'investitore non percepisce, in una qualsiasi modalità, i frutti di questa forma di impiego del risparmio.
        Non solo. La tassazione delle prestazioni dovrà tenere conto, nel senso del favore, delle finalità specifiche di tali investimenti, indirizzati al soddisfacimento dei bisogni previdenziali. Il montante finale spettante al lavoratore sarà quindi tassato, ma in forma attenuata, rispettando le modalità di formazione dello stesso. In particolare, il favor accordato alla forma di risparmio qui in oggetto si potrà tradurre, per la quota riconducibile ai frutti dell'investimento delle somme versate nel fondo, nell'applicazione, al momento dell'erogazione delle prestazioni, di un'aliquota d'imposta inferiore rispetto a quella prevista in via ordinaria per i frutti delle attività finanziarie, eventualmente differenziata in ragione della tipologia dei fondi ovvero del periodo iniziale di operatività dei fondi stessi. Il regime di favor previsto per il risparmio previdenziale consentirà, inoltre, di tener conto della necessità di non ostacolare la mobilità transfrontaliera dei lavoratori, in linea con gli orientamenti espressi dagli organi comunitari.

        3.5. La ratio sottesa alle disposizioni di cui al comma 1, lettera e), e ai commi 2 e 3 è strettamente connessa alle peculiarità di una riforma che ha una portata di carattere straordinario, e che pertanto non può risolversi né in un solo esercizio finanziario, né tanto meno in una previsione capace di cogliere ex ante la complessità dell'evoluzione economica, dalla cui dinamica - per effetto dei cosiddetti "stabilizzatori automatici" - dipenderà, in misura maggiore o minore, la copertura finanziaria del provvedimento.
        Per ovviare a simili inconvenienti, si è pertanto prevista una procedura che consente di individuare, anno per anno, l'entità delle risorse da destinare alla progressiva riduzione del prelievo, raccogliendo i suggerimenti dati dai principali organismi internazionali, quali il FMI, l'OCSE e la Commissione europea.
        Questa procedura fa leva sul disegno individuato dalla legge n. 468 del 1978, con le sue particolari scansioni.
        Una prima valutazione sarà fatta nel Documento di programmazione economico-finanziaria, quindi tradotto nella risoluzione parlamentare che lo approva: momento, quest'ultimo, che impegna Governo e Parlamento verso un comune obiettivo e che è denso di implicazioni regolamentari.
        Successivamente, quelle indicazioni si trasformano nei presupposti, sulla base dei quali è costruita la legge finanziaria, sottoposta alla definitiva approvazione parlamentare.


4. Articolo 4. - L'imposta sul reddito delle società.

        Questa parte della riforma ha un obiettivo principale: armonizzare il nostro sistema fiscale con quelli più efficienti, in essere nei Paesi industrializzati; in particolare, nei Paesi membri dell'Unione europea. In questo modo si realizzano anche le indicazioni espresse, proprio in questo senso, dalla stessa Commissione europea. Ulteriori obiettivi, sempre nella logica della competizione fiscale, sono poi la semplificazione della struttura del prelievo ed il contenimento degli effetti di imposizione e di doppia imposizione giuridica, ma soprattutto economica.
        Fa parte di questa strategia, in una logica "captive", anche l'introduzione della cosiddetta "Tonnage Tax".
        Ma torniamo ai fondamentali.
        Da tempo, il movimento che si manifesta nel "benchmark" di riferimento (costituito essenzialmente dal modello fiscale europeo) è espresso nel senso della "riduzione" del prelievo sull'impresa, simbolizzato dalla progressiva riduzione "dell'aliquota d'imposta".
        Da questo punto di vista, l'Italia ha recentemente percorso una strada particolarmente diversa, introducendo:

                a) da una parte l'IRAP, un'imposta praticamente unica nel suo genere all'interno del panorama internazionale;

                b) dall'altra la DIT, che affida la riduzione del prelievo a meccanismi sofisticati, favoristici o dirigistici, non accessibili a tutte le imprese, ma solo alle imprese particolarmente attrezzate e fortunate, sul piano finanziario e tecnologico.

        Tutte e due queste misure hanno accresciuto il "particularisme", la disomogeneità del sistema fiscale italiano, nel panorama internazionale. Tuttavia senza conseguire l'obiettivo dichiarato, di rafforzamento patrimoniale delle imprese nazionali, ed anzi discriminando, dato che il regime di maggiore favore fiscale viene così riservato alla dimensione d'impresa prevalentemente finanziaria o tecnologica, sfavorendo per contro relativamente e non razionalmente la piccola e media impresa.
        E comunque l'impresa con (più) alta intensità di lavoro. Ciò che è ancora più singolare, in un Paese la cui struttura produttiva è caratterizzata da un alto tasso di utilizzo del capitale umano.
        Non solo. La discriminazione dell'IRAP, nei confronti del capitale di debito, ed il favore della DIT, nei confronti del capitale di rischio, non sono stati e non sono, in particolare, tali da prevalere sulla convenienza dell'imposizione proporzionale sui redditi di capitale in capo alle persone fisiche, normalmente operata con l'aliquota del 12,5 per cento. A ciò va aggiunto che il debito "fisiologico" - quello cioè che deriva dalla capacità di credito propria dell'impresa e non del socio - costituisce, con ogni evidenza, uno strumento normale, e non anormale, nella gestione di un'impresa. Non c'è dunque ragione, razionale o costituzionale, per penalizzarlo. In specie, non ha senso fare una politica di riduzione del "costo del denaro". Per poi assoggettare questa specifica voce di costo ad una forma di imposizione specifica.
        L'"evoluzione divergente" del nostro sistema fiscale risulta, a grandi linee, dal prospetto di seguito riportato, che mette a confronto le variazioni delle aliquote legali, operate nell'Unione europea tra il 1989 ed il 2001.
        Va comunque notato a questo proposito che, per quanto riguarda l'Italia, la rappresentazione contenuta nel prospetto non è, e per necessità di cose, precisa. Ciò perché il prospetto non tiene conto (non può tenere conto, trattandosi di un dato variabile da soggetto a soggetto, da caso a caso, di anno in anno) del "maggior prelievo", in percentuale sul reddito, che deriva dall'inclusione, nella base imponibile IRAP, del costo del lavoro e degli oneri finanziari, che non sono voci omogenee, perché non sono voci di reddito. Mentre l'incidenza fiscale finale deve essere omogeneizzata proprio in rapporto al reddito. In ogni caso:

... (omissis) ...

 

... (omissis) ...


        E' evidente, in questo scenario, che l'omogeneità a cui mirare, come obiettivo fondamentale, è essenzialmente quella dell'"aliquota" del prelievo.
        Da questo punto di vista, la presente riforma interviene con la riduzione al 33 (esattamente la "media" europea) dell'aliquota dell'imposta sul reddito e con la progressiva abolizione dell'IRAP (l'"anomalia" europea), qui cominciando dall'esclusione, dalla base imponibile IRAP, del costo del lavoro.
        Per introdurre (per "finanziare") la minore aliquota possibile e la progressiva riduzione dell'IRAP, si devono abbandonare istituti che, pur giustificati nel contesto economico in cui sono stati concepiti, ormai non sono più adeguati, nell'attuale fase di globalizzazione dell'economia.
        Lo si può fare iniziando dall'obiettivo di adottare, nel nostro Paese, una base imponibile coerente con lo standard europeo. Detassando le plusvalenze, ma correlativamente rendendo "neutrali" minusvalenze ed altre connesse componenti negative di reddito, cancellando "scorciatoie", "loophole", eccetera.
        Più in dettaglio e tuttavia partendo, per ragioni tecniche, dal circuito dei dividendi, invece che dalla grande scelta di neutralizzazione congiunta delle componenti di reddito positive e negative, va notato quanto segue.
        Dopo la riforma introdotta dalla Germania nel luglio del 2000, l'Italia è uno dei pochissimi Paesi che ancora riconoscono un credito d'imposta pieno e rimborsabile sui dividendi distribuiti a soci che siano a loro volta società di capitali.
        Questa disomogeneità non va valutata positivamente, perché comporta una distorsione casuale del corretto funzionamento del mercato. Per esemplificare, con il meccanismo del credito d'imposta, l'acquisizione di società residenti in Italia, da parte di non residenti, attraverso la costituzione di una società locale, è comparativamente meno onerosa dell'acquisizione di società di ogni altro Stato, anche per l'assenza di norme sulla sottocapitalizzazione delle imprese.
        Partiamo dall'imposizione sui dividendi, secondo il metodo dell'imputazione. Questo metodo, attualmente in vigore nel nostro sistema fiscale, attribuisce al socio un credito rimborsabile, corrispondente all'imposta personale assolta dalla società.
        La logica posta alla base di questo metodo è quella di determinare il prelievo definitivo in relazione alla situazione soggettiva del socio e non a quella dell'impresa che ha prodotto il reddito. Si tratta di un metodo che era efficiente, quando le dimensioni dell'economia coincidevano con le frontiere dello Stato, all'interno del quale risiedevano i soci. In un'economia globalizzata, spesso il socio risiede in una giurisdizione diversa da quella in cui è operata la produzione del reddito.
        E' per questo che la determinazione del prelievo va baricentrata sulla situazione "oggettiva" dell'"impresa" e non su quella "soggettiva" del "socio".
        La crisi del sistema di imposizione sui dividendi per imputazione comporta inevitabili aggiustamenti, per evitare il fenomeno della doppia imposizione economica.
        E' un'esigenza che deriva dalla maggior internazionalizzazione delle imprese. Imprese che, per operare sul mercato globale, tendono ad articolarsi in una pluralità di soggetti giuridici collocati in giurisdizioni diverse. In questa situazione è costante la ricerca della combinazione di "asset" più efficiente.
        Per queste ragioni, alla regola generale dell'imponibilità delle plusvalenze, realizzate da società di capitali mediante la cessione di partecipazioni sociali, si è sostituita quella dell'esenzione. Infatti, al verificarsi di condizioni diverse, ma sempre correlate alla stabilità dell'investimento, tali plusvalenze sono o stanno per divenire esenti nei seguenti Paesi:

            Austria;

            Belgio;

            Danimarca;

            Lussemburgo;

            Germania;

            Olanda;

            Spagna;

            Regno Unito.

        Per eliminare lo svantaggio competitivo delle imprese residenti, la riforma accoglie la regola dell'esenzione, prevedendo solo le cautele necessarie ad evitare che questa si estenda:


                a) agli investimenti di breve periodo;

                b) alle partecipazioni in società senza esercizio di impresa.

        Questa forma di esenzione, conosciuta nel diritto fiscale internazionale con la denominazione di "partecipation-exemption", riguarda le plusvalenze realizzate da società di capitali o da enti commerciali con la cessione di partecipazioni in società sia residenti che non residenti, sia di capitali che di persone; con l'unica esclusione di quelle che godono all'estero di un regime fiscale privilegiato.
        Come si è notato nella parte dedicata alla riforma della imposta sul reddito, l'esenzione - conformemente a quanto avviene negli altri Paesi che la prevedono - non si estende alle persone fisiche, in quanto percettori finali del reddito, e quindi non si estende agli imprenditori individuali ed ai soci di società di persone. Per questi soggetti (comunque favoriti dall'abbattimento delle aliquote e dalla progressiva erosione dell'IRAP) è prevista una parziale inclusione delle plusvalenze nel reddito imponibile, in modo tale da ottenere una sostanziale riduzione della doppia imposizione economica; viene simmetricamente prevista la deducibilità dei costi relativi.
        Più in generale, la delega prevede, per la determinazione del reddito d'impresa dei soggetti passivi della imposta sul reddito, l'applicazione delle norme contenute nella disciplina della imposta sul reddito delle società, se compatibili; norme opportunamente modificate per tener conto delle differenze esistenti tra i soggetti passivi.
        All'esenzione delle plusvalenze sulle partecipazioni sociali non può non corrispondere l'esclusione dei dividendi dalla formazione del reddito imponibile. In specie, l'esclusione viene realizzata estendendo il regime previsto per i dividendi comunitari anche ai dividendi distribuiti da società residenti nel territorio dello Stato ed in Stati non aderenti all'Unione europea; con l'unica eccezione, ancora, dei dividendi provenienti da Paesi a regime fiscale privilegiato.
        Anche per i dividendi, l'esclusione è limitata ai soggetti passivi della imposta sul reddito delle società. Per le persone fisiche, siano essi imprenditori individuali o soci di società di persone, il regime dei dividendi - analogamente a quanto previsto per le plusvalenze - è quello della parziale inclusione nel reddito imponibile, al netto della corrispondente quota dei costi relativi.
        Così come è negli altri Paesi che l'hanno introdotta, all'esenzione delle plusvalenze su partecipazioni "simmetricamente" corrisponde l'indeducibilità delle minusvalenze realizzate ed iscritte oltre a quella dei costi relativi, fra i quali vanno considerati anche gli oneri finanziari.
        A questo proposito, l'articolo 4 del disegno di legge delega, alla lettera f) del comma 1, contiene in specie la presunzione secondo cui il possesso di partecipazioni che si qualificano per l'esenzione è innanzitutto finanziato dal patrimonio netto contabile opportunamente rettificato.
        Solo l'eventuale eccedenza del valore di libro di tali partecipazioni, rispetto al patrimonio netto contabile, richiede il calcolo di un "pro-rata" di indeducibilità, da costruire con riferimento ai valori patrimoniali della società partecipante.
        Inoltre, come verrà notato più avanti, non rilevano ai fini del calcolo dell'eccedenza - e quindi non determinano alcuna indeducibilità di oneri finanziari - le partecipazioni in società, relativamente alle quali viene esercitata l'opzione per la tassazione di gruppo (nonché, eventualmente, anche quelle in società il cui reddito è tassato in capo ai soci, per effetto dell'esercizio dell'opzione prevista dalla lettera i) del comma 1 dell'articolo 4).
        Il mancato riconoscimento del gruppo d'imprese, ai fini dell'imposizione sul reddito, è un altro importante elemento di disomogeneità del sistema fiscale nazionale, rispetto a quelli dei Paesi assunti come riferimento.
        Per contro, il riconoscimento fiscale dei gruppi costituisce il naturale correttivo dell'indeducibilità delle minusvalenze su partecipazioni.
        Per questi motivi, il disegno di legge delega prevede la facoltà di optare per la tassazione su basi consolidate di gruppo ai fini dell'imposta sul reddito delle società. Il metodo previsto a questo fine è derivato da un'analisi comparata, in base alla quale si possono individuare due modelli fondamentali:

                a) nel primo modello, ciascuna società continua a presentare la propria dichiarazione dei redditi, ma può attribuire ad altra società del gruppo gli effetti di risparmio d'imposta consentiti dal proprio imponibile negativo opportunamente rettificato. Nell'ambito dei Paesi più industrializzati - e con particolare riferimento a quelli del G7 - questo metodo è adottato dalla Germania e dall'Inghilterra. Anche l'Australia lo prevede, ma ha manifestato l'intenzione di sostituirlo con quello che segue come secondo modello;


                b) nel secondo modello - alternativo al precedente - la società capogruppo presenta un'unica dichiarazione, contenente la somma algebrica dell'imponibile proprio e di quelli delle società controllate, opportunamente rettificati. Questo secondo metodo è adottato dalla Francia e dagli Stati Uniti. Si accinge ad adottarlo il Giappone e, come appena notato, l'Australia.

        Questo progetto di riforma assume il secondo modello, basato sulla presentazione di un'unica dichiarazione, considerando: 1) la sua maggiore semplicità; 2) la possibilità di prevedere la neutralità delle transazioni infragruppo per i beni diversi da quelli che producono ricavi, in alternativa all'ordinario regime fiscale; 3) la minore esigenza di prevedere norme antielusive.
        Il secondo modello si caratterizza in particolare per i seguenti elementi fondamentali:

                a) l'opzione per la tassazione di gruppo è una facoltà che può essere esercitata discrezionalmente, da parte delle singole società interessate, per un periodo non inferiore a tre anni, salvo ovviamente il caso di uscita dal gruppo;

                b) l'appartenenza al gruppo dipende dal solo requisito formale costituito dal controllo, per una percentuale non inferiore alla maggioranza dei diritti di voto esercitabili nell'assemblea ordinaria. Sussistendo questo requisito, l'intero imponibile della controllata confluisce nella determinazione algebrica dell'imponibile di gruppo, che sarà operata nella dichiarazione dei redditi della società od ente controllante. A questo proposito è in particolare utile ricordare le percentuali di possesso richieste dai Paesi assunti come riferimento:

                Australia 100;

                Francia 95;

                Spagna 90;

                USA 80;

                Regno Unito 75;

                Germania 50,1;

                c) la capogruppo deve necessariamente essere un soggetto passivo dell'imposta sul reddito delle società, residente o con stabile organizzazione nel territorio dello Stato; le società controllate devono necessariamente essere residenti nel territorio dello Stato;

                d) è previsto un regime facoltativo di neutralità fiscale per gli scambi di beni, diversi da quelli che producono ricavi, che avvengono all'interno del gruppo fiscale. In caso di uscita dal gruppo o di suo scioglimento, è consentito il riallineamento dei valori fiscali a quelli di libro dei beni così trasferiti;

                e) le partecipazioni in società incluse nella tassazione di gruppo sono irrilevanti ai fini del calcolo del "pro-rata" di indeducibilità degli oneri finanziari, salva la possibilità di prevedere il recupero a tassazione, eventualmente parziale, nel caso di successiva cessione delle partecipazioni stesse.

        Il consolidato fiscale, cui fino ad ora si è fatto riferimento, è relativo alle società ed agli enti residenti. In aggiunta, viene considerata l'opportunità di consentire, a determinate condizioni, l'inclusione nel consolidato anche delle società non residenti.
        In ambito internazionale, questa possibilità è, al momento, esplicitamente prevista solo dalla Danimarca e dalla Francia.
        Va tuttavia notato che l'inclusione delle attività estere è di fatto possibile - come prassi diffusa ed accettata - anche nei Paesi, come Inghilterra e Stati Uniti, che limitano il consolidato fiscale alle società residenti.
        Questi Paesi infatti, adottando il principio della tassazione del reddito mondiale ("world wide income"), non possono escludere le stabili organizzazioni all'estero delle società residenti, per cui estendono il consolidato anche ad attività estere, in via di principio escluse.
        Da questo punto di vista, queste legislazioni appaiono meno sistematiche di quella francese e danese, perché fanno dipendere il consolidamento dalla circostanza - priva di valore economico e spesso determinata da fattori casuali o di pianificazione fiscale - del veicolo (società separata o stabile organizzazione) attraverso il quale è operata la gestione delle attività estere.
        Va inoltre notato che l'esplicita regolamentazione del consolidato mondiale consente di introdurre il principio "all in, all out", secondo cui l'esercizio dell'opzione non è consentito se non per tutte le attività estere.
        La possibilità di includere nella tassazione di gruppo anche le società non residenti è prevista con gli stessi criteri e modalità previsti per il consolidato domestico; salve alcune deroghe necessarie. In particolare:

                a) se viene esercitata l'opzione per il consolidato mondiale, devono necessariamente essere incluse tutte le controllate estere. Per questo motivo, l'esercizio dell'opzione è riservato alle società ed agli enti controllanti di grado più elevato, residenti nel territorio dello Stato;

                b) sull'esempio francese, si prevede un'opzione irrevocabile per un periodo non inferiore a cinque anni (i successivi rinnovi avvengono per periodi triennali);

                c) l'opzione non può essere esercitata (e, se esercitata, perde efficacia) se i bilanci della controllante residente e delle controllate estere non sono sottoposti a revisione contabile da parte di soggetti qualificati;

                d) a differenza di quanto previsto per il consolidato domestico, quello mondiale consentirà la compensazione degli imponibili proporzionalmente alla quota di partecipazione direttamente ed indirettamente posseduta.

        L'istituto del consolidato mondiale costituisce certamente un'opzione onerosa, tanto per la complessità del suo funzionamento, quanto per le necessarie garanzie che devono essere previste a tutela della ragioni erariali.
        Per contemperare le opposte esigenze dell'efficienza e dell'onerosità, sono state previste la revisione contabile dei bilanci delle società coinvolte e la possibilità, per l'amministrazione finanziaria, di prevedere condizioni ulteriori, anche diverse per singolo contribuente, a tutela della corretta determinazione del reddito imponibile.
        Inoltre, è stata attribuita all'amministrazione finanziaria la corrispondente discrezionalità consistente nel semplificare l'esercizio dell'opzione, mediante deroga all'applicabilità di norme riferibili a realtà giuridiche e produttive esclusivamente nazionali.
        Infine, va ricordata la possibilità di riportare in avanti il credito per imposte pagate all'estero, rimasto inutilizzato nell'esercizio di competenza. Questa possibilità, prevista anche nei Paesi assunti come riferimento, è un fattore necessario per il concreto funzionamento del consolidato mondiale.
        A questi interventi essenziali e caratterizzanti, se ne devono aggiungere alcuni, necessari per assicurare le coerenze interne del sistema ed il suo miglior funzionamento. Nei termini che seguono:


a) rettifiche dell'attivo e accantonamenti.

        Nella disciplina in vigore, sono frequenti le interferenze fiscali nelle rappresentazioni contabili. Si pensi al caso dei limiti forfetari al riconoscimento fiscale delle rettifiche dell'attivo e degli accantonamenti. O, anche, al principio della previa imputazione al conto economico dei costi e degli oneri da portare in deduzione (cfr. articolo 76, comma 4, del testo unico delle imposte sui redditi). L'effetto combinato di queste regole fiscali genera interferenze indesiderabili ed è incoerente con il sistema di tassazione di gruppo; sistema che consente ad altra società del gruppo di dedurre le componenti forfetarie, non dedotte dalla società cui naturalmente farebbero capo.
        Nel disporre l'abolizione dell'obbligo di transito dal conto economico per le predette componenti negative forfetariamente determinate, saranno comunque previste le necessarie cautele normative al fine del recupero del differimento d'imposta in questo modo consentito;


b) contrasto della sottocapitalizzazione delle imprese.

        Nel sistema fiscale in vigore, il contrasto del fenomeno di sottocapitalizzazione delle imprese è affidato al disposto dell'articolo 7, commi da 1 a 4, del decreto-legge 20 giugno 1996, n. 323, convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1996, n. 425. Questa norma prevede una maggior ritenuta del 20 per cento sui valori mobiliari depositati a garanzia di imprese residenti, da parte di soggetti nei confronti dei quali i proventi dei titoli depositati subiscono la ritenuta a titolo d'imposta.
        Se comparata con quelle in vigore nei sistemi fiscali di riferimento, la norma italiana presenta caratteristiche singolari e contraddittorie, che la rendono al tempo stesso eccessivamente severa, per alcuni aspetti, e facilmente aggirabile, per altri. A differenza delle analoghe norme vigenti negli altri Paesi, infatti, la norma italiana: (i) non richiede nessun rapporto di partecipazione tra il soggetto depositante e l'impresa finanziata, colpendo in tal modo anche le garanzie prestate dai non soci; (ii) penalizza solo una determinata garanzia reale rilasciata in modo formale; (iii) non considera le garanzie personali; (iv) non considera i finanziamenti direttamente erogati dal socio.
        Per razionalizzare la necessaria azione di contrasto del fenomeno di sfruttamento fiscale della sottocapitalizzazione delle imprese (non della "sottocapitalizzazione" tout court, che è un fatto economico a sé), sono previsti i seguenti princìpi e criteri direttivi:

            1) rilevanza solo dei crediti erogati o garantiti dal socio, che detiene direttamente o indirettamente una partecipazione rilevante nell'impresa (intendendo per tale quella non inferiore al 10 per cento), a condizione che gli oneri finanziari non confluiscano in un reddito complessivo imponibile in Italia ai fini dell'imposta sul reddito o dell'imposta sul reddito delle società;

            2) alle condizioni predette, rilevanza anche dei finanziamenti erogati da parti correlate al socio (da identificare in base al requisito del controllo di cui all'articolo 2359 del codice civile). Allo stesso requisito del controllo si farà riferimento al fine di determinare se esiste una partecipazione indiretta dell'entità richiesta;

            3) previsione di un rapporto tra la quota di patrimonio netto e l'indebitamento dell'impresa riferibili al socio con i requisiti predetti, differenziandolo per le società, la cui attività consiste in via esclusiva o prevalente nell'assunzione di partecipazioni e per le altre società. A questo proposito, è utile ricordare che nella recente riforma tedesca questo rapporto consente un debito rispettivamente pari a tre volte ed ad una volta e mezza la corrispondente quota di patrimonio netto;

            4) verificandosi un rapporto superiore a quello consentito, viene posto a carico del contribuente l'onere di dimostrare che i finanziamenti eccedenti derivano dalla capacità di credito dell'impresa e non da quella del socio. In assenza di questa dimostrazione, gli oneri finanziari dovuti dall'impresa saranno assimilati ad utili distribuiti e conseguentemente considerati indeducibili nella determinazione del reddito d'impresa;

            5) rilevanza dei finanziamenti comunque erogati dal socio, avendo riguardo anche ai comportamenti od agli atti giuridici, che - pur non qualificati formalmente come prestazioni di garanzie reali o personali - ottengano lo stesso risultato economico;

            6) irrilevanza dei finanziamenti assunti nell'esercizio dell'attività bancaria;


c) abrogazione dell'imposta sostitutiva sulle plusvalenze di cui al decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358.

        L'abrogazione dell'imposta sostitutiva di cui al predetto decreto legislativo è, per cominciare, soltanto una logica conseguenza dell'introduzione dell'esenzione per le plusvalenze su partecipazioni societarie realizzate da società di capitali o della parziale inclusione delle stesse nel reddito imponibile di imprenditori individuali e società di persone. Per quanto riguarda le imprese, infatti, l'abrogazione dell'imposta del 19 per cento consegue alla riduzione dell'entità del prelievo sul reddito ordinario; riduzione che rende meno giustificabile l'esistenza di un prelievo sostitutivo. Non solo. L'abrogazione dell'imposta sostitutiva risponde anche all'esigenza di non perpetuare il meccanismo vigente, per cui il valore attuale dell'imposta sostitutiva, prelevata con l'aliquota del 19 per cento, risulta in linea di massima significativamente inferiore al valore attuale del risparmio d'imposta, derivante dai corrispondenti ammortamenti deducibili dal reddito ordinario, colpito dall'aliquota del 40,25 per cento.
        L'introduzione della "partecipation-exemption" e l'abolizione dell'imposta sostitutiva escludono la possibilità di convertire in valori fiscalmente riconosciuti il disavanzo da annullamento e da concambio nelle operazioni di fusione e di scissione.
        Salve le modifiche necessarie per il loro coordinamento con il sistema di prelievo introdotto dalla presente riforma, verranno invece mantenuti i regimi di neutralità fiscale e di determinazione dell'imponibile, previsti sia dal decreto legislativo n. 358 del 1997, che dal decreto legislativo n. 544 del 1992;


d) riformulazione della disciplina del credito d'imposta per imposte pagate all'estero.

        Coerentemente con l'introduzione del consolidato mondiale e con una più generale esigenza di un aggiornamento dell'istituto, viene prevista la revisione della disciplina del credito per imposte pagate all'estero, al fine di: 1) operare il calcolo relativamente a ciascuna controllata estera ed a ciascuna stabile organizzazione o alternativamente, solo per queste ultime, prevedere il riferimento a tutte quelle operanti nello stesso Paese; 2) consentire il riporto in avanti ed all'indietro del credito d'imposta inutilizzato per un periodo eventualmente differenziato, non inferiore ad otto esercizi;


e) opzione per la trasparenza delle società di capitali ("consortium relief").

        L'indeducibilità delle perdite su partecipazioni, conseguente all'introduzione della "partecipation-exemption", richiede l'introduzione di opportuni correttivi, per evitare la penalizzazione delle "corporate joint venture" ed, in genere, degli altri accordi che richiedono la costituzione di società di capitali, alla cui compagine sociale partecipano a loro volta altre società di capitali o enti commerciali. In questi casi, gli eventuali risultati negativi della "joint venture" sarebbero infatti fiscalmente irrilevanti per i partner, salva la possibilità per uno solo di questi, ricorrendone le condizioni, di avvalersi del consolidato fiscale. Al fine di rimuovere questo effetto negativo, sarà consentito, in questi casi, di optare per il regime di trasparenza fiscale delle società di persone.
        La stessa opzione potrà eventualmente essere consentita in presenza di soci non residenti, solo in assenza dell'obbligo di ritenuta sugli utili distribuiti.
        La società che esercita l'opzione garantisce con il proprio patrimonio l'adempimento degli obblighi fiscali da parte dei soci;


f) determinazione forfettaria del reddito derivante dalle attività marittime (cosiddetta "tonnage tax").

        Il 24 giugno 1997 la Commissione europea ha approvato nuove linee guida relativamente agli aiuti di Stato consentiti per l'attività marittima. Queste linee guida sono prevalentemente mirate a consentire la riduzione dei costi previdenziali e fiscali: per questi è in specie prevista la riduzione a zero dell'imposizione sul reddito, da sostituire con un'imposta dovuta in cifra fissa per fasce di tonnellaggio di stazza netta. In conformità alle linee guida della Commissione, la Germania, l'Olanda, la Norvegia e l'Inghilterra hanno abolito l'imposizione sul reddito derivante dalle attività marittime, sostituendola con un'imposta sul tonnellaggio. Altri Stati membri stanno per adottare analoghe iniziative. Questa riforma, al fine di mantenere la competitività delle imprese di navigazione italiane, prevede coerentemente un meccanismo di prelievo forfetario basato sul tonnellaggio;


g) riformulazione delle norme volte a contrastare l'utilizzo di Paesi a regime fiscale privilegiato.

        Nel testo unico sulle imposte dirette, le norme volte a contrastare l'utilizzo di società residenti in Paesi a regime fiscale privilegiato sono attualmente contenute nell'articolo 127-bis. Questa disposizione prevede l'imputazione, ai soci residenti, del reddito prodotto da controllate estere residenti nei Paesi predetti (cosiddetti "CFC").
        La norma va riformulata, al fine di estendere l'applicazione della particolare disciplina anche alle società collegate al soggetto residente, prevedendo - in assenza del requisito del controllo - l'imputazione del maggiore fra l'utile di bilancio ed un reddito forfetariamente determinato, mediante l'applicazione di coefficienti di rendimento ai beni che figurano nell'attivo patrimoniale. Nel caso relativo ai fornitori residenti in Paesi a bassa fiscalità, al fine di consentire la deducibilità dei costi effettivamente sostenuti, quando il committente residente renda note le operazioni poste in essere all'amministrazione finanziaria e fornisca la prova che le stesse rispondono ad un effettivo interesse economico ed hanno avuto concreta esecuzione.


5. Articolo 5. - L'imposta sul valore aggiunto.

        L'attuale disciplina dell'IVA è il prodotto di un lungo processo di stratificazione normativa. Si può calcolare che, dal momento dell'introduzione dell'IVA nel nostro ordinamento (operata con il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633), ad oggi, si siano succeduti più di 80 provvedimenti legislativi "fondamentali".
        Ne è derivato un quadro normativo in cui si sovrappongono criteri non sempre omologhi. I singoli istituti si sviluppano in sequenze esasperatamente casistiche, gli obblighi formali ed i meccanismi applicativi sono disciplinati in modo evidentemente troppo complesso.
        Ne deriva l'esigenza di riformare l'IVA, sulla base dei princìpi generali della codificazione, delineati nell'articolo 2 del presente disegno di legge.
        Fermi restando, ovviamente, i vincoli comunitari.
        In questa logica, si può in particolare notare quanto segue:

                a) la riforma mira all'obiettivo di avvicinare la struttura dell'imposta sul valore aggiunto a quella propria e tipica di un'imposta sui consumi. Ciò perché sono presenti nella disciplina vigente - come modificata dal decreto legislativo n. 313 del 1997, in attuazione di una delle deleghe conferite con la legge n. 662 del 1996 - distorsioni applicative che incidono sui criteri di determinazione della base imponibile. In particolare, le disposizioni in tema di indetraibilità dell'imposta assolta a monte non sono coerenti con i criteri sviluppati dalla normativa comunitaria e dalla giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee;

                b) viene espressa la necessità di un coordinamento con il sistema dell'accisa, per evitare gli effetti di parziale duplicazione giuridica ed economica, presenti nella disciplina vigente; effetti che conseguono ad alcune delle attuali e principali forme di determinazione della base imponibile;

                c) si prevede la razionalizzazione dei sistemi speciali in funzione della particolarità dei settori interessati. Nel rispetto delle prescrizioni comunitarie in materia, ogni regime speciale deve assicurare l'attuazione dei princìpi generali e dei criteri informatori propri dell'imposta dell'IVA, introducendo gli elementi differenziali specifici, richiesti dalla particolarità dei settori interessati. In altri termini, i regimi speciali devono manifestarsi in adattamenti della disciplina generale, senza contraddirne i princìpi ispiratori. Le particolarità dei singoli settori non devono produrre distorsioni nell'applicazione dell'imposta, aggravi od oneri maggiori, rispetto a quelli ordinariamente configurabili;

                d) si estende anche all'IVA il processo di semplificazione degli adempimenti formali a carico dei contribuenti, già iniziato, nel corso di questa legislatura, con l'adozione dei primi interventi per il rilancio dell'economia ("100 giorni").

        La disposizione contenuta nel comma 2 dell'articolo 5 caratterizza in modo innovativo la disciplina dell'imposta. Compatibilmente con i vincoli comunitari, si prevede l'esclusione dalla base imponibile dell'1 per cento del volume d'affari, destinato a finalità etiche, nella logica della "De-Tax" (o "A-Tax").
        Per quanto riguarda il medesimo comma 2 dell'articolo 5, si procederà con una metodologia analoga a quella indicata all'articolo 3.
        In sede di impostazione della legge finanziaria, le risorse disponibili saranno ripartite a seconda delle priorità: la parte più consistente sarà ovviamente destinata alla riduzione delle aliquote, mentre una quota minore sarà invece destinata a coprire l'onere derivante dall'attuazione del comma considerato.
        Va infine ricordato che la sessione di bilancio resta momento essenziale per la ricomposizione del processo decisionale. Processo caratterizzato da due momenti fondamentali: da un lato, la valutazione delle risorse disponibili; dall'altro lato, la loro destinazione.


6. Articolo 6. - L'imposta sui servizi.

        
Il mondo delle cosidette "imposte minori" è popolato da forme fiscali eterogenee. Che tuttavia hanno alcuni profili in comune: la frammentata molteplicità dei presupposti impositivi; le dimensioni contenute delle basi imponibili; l'elevato numero dei contribuenti coinvolti; la consistenza e la continuità del gettito prodotto.
        La "minorità" ha escluso, per lungo tempo, queste imposte dalle riforme che hanno, invece, più volte investito le imposte "maggiori".
        Questo segmento della fiscalità statale si è così sviluppato in modo complesso, disperdendosi in una grande varietà di tipologie strutturali e di adempimenti formali e sostanziali.
        Per questo motivo, la riforma delle imposte minori segue un movimento inverso rispetto a quello che ne ha determinato lo sviluppo: la concentrazione si sostituisce alla dispersione delle forme impositive.
        Anche in questo settore viene in specie attuato il principio cardine proprio di questa riforma fiscale: "e pluribus unum"; dalla molteplicità all'unitarietà.
        L'imposta sui servizi concentra in particolare, in un'unica obbligazione fiscale, una vasta serie di imposte minori.
        Va, in specie, notato che la fiscalità minore si caratterizza per la richiesta e la conseguente fruizione, da parte del contribuente, di un servizio pubblico.
        Su questo denominatore comune non viene soltanto fondata l'unificazione dei presupposti d'imposta, ma anche l'unicità dell'obbligazione fiscale e l'unitarietà delle modalità di prelievo.
        A questa drastica semplificazione e concentrazione del prelievo si collegano due effetti positivi: la riduzione ai minimi termini degli adempimenti richiesti al contribuente e la possibilità di realizzare apprezzabili economie di scala interne all'amministrazione finanziaria.


7) Articolo 7. - L'accisa.

            Attualmente, l'imposizione sull'energia si articola in una vasta molteplicità di forme di prelievo. Nel complesso, il livello dell'imposizione è elevato, anche se la sua incidenza rispetto al prodotto interno lordo (PIL) si è ridotta dall'inizio degli anni novanta.
        Il gettito deriva quasi totalmente dalle imposte sugli oli minerali e sul gas metano; imposte che non sono applicate in modo uniforme nel Paese.
        Rispetto alla media europea, in Italia i prezzi dell'energia sono relativamente più elevati ed i consumi energetici più ridotti. Il livello dei prezzi finali e dell'imposizione è sensibilmente più elevato nel settore civile e dei trasporti, che nel settore industriale, soggetto a vincoli di competitività internazionale.
        Il livello raggiunto dalla fiscalità in campo energetico è stato determinato, fino ad oggi, da necessità di gettito e non ha seguito logiche di ordine ambientale.
        L'unico tentativo in questo senso - peraltro connesso ai vincoli internazionali di adesione agli accordi di Kyoto - è stato quello fatto con la cosidetta "carbon tax". Un meccanismo di prelievo aggiunto sui prodotti di combustione, che tuttavia non si è mai sviluppato, perché destinato ad incrementare una fiscalità energetica già troppo elevata in partenza.
        La riforma del sistema dell'accisa, delineata dall'articolo 7 del presente disegno di legge, comprende il riordino dell'imposizione sull'energia, ma si estende all'imposizione su altri prodotti (come, ad esempio, alcoli e spiriti); prodotti, questi ultimi, accomunati, a quelli della prima e più ampia categoria, dal denominatore comune dell'assoggettamento ad accisa.
        La norma di delega individua nell'efficienza e nell'ottimalità i principi ordinatori del sistema dell'accisa.
        Più in particolare, le direttrici della riforma sono due: la determinazione graduale delle singole accise ed il coordinamento del sistema dell'accisa con l'imposta sui consumi. Le finalità della riforma sono la riduzione dell'incidenza dell'accisa sui prodotti essenziali, la correzione degli effetti esterni negativi su ambiente, salute e benessere e l'eliminazione delle duplicazioni d'imposta.
8. Articolo 8. - Graduale eliminazione dell'IRAP.

        L'introduzione dell'IRAP - in attuazione di una delle deleghe contenute nella legge n. 662 del 1996 - ha costituito, e lo si è già notato, un caso notevole di "particolarismo" fiscale domestico. Mentre gli altri ordinamenti fiscali europei tendevano, e tendono, a convergere verso istituti uniformi - indotti dalla crescente globalizzazione ed interdipendenza delle economie nazionali - in Italia si è fatta una scelta "divergente": l'elemento più tipico della nuova imposta IRAP è, infatti, la sua assoluta particolarità.
        Unica nello scenario internazionale, estranea alla tradizione comunitaria e nazionale, l'IRAP dovrebbe in specie soddisfare un'esigenza di semplificazione e perseguire un obiettivo di innovazione. Parallelamente all'istituzione della nuova imposta sono stati, infatti, soppressi alcuni tributi ed i contributi sanitari. Sul piano dell'innovazione sostanziale, si è mirato ad introdurre uno strumento di prelievo capace di orientare (di "dirigere") le scelte degli operatori economici verso il capitale di rischio, invece che verso il capitale di debito; verso l'investimento innovativo in macchine, invece che verso i lavoratori, eccetera.
        A conclusione del ciclo iniziale di applicazione dell'imposta, si può fare un bilancio.
        L'introduzione dell'IRAP non ha semplificato il sistema fiscale. L'IRAP si caratterizza, infatti, proprio a causa dell'assoluta unicità e complessità dei suoi criteri di applicazione, soprattutto sotto il profilo del costo della gestione dei dati contabili. La proliferazione degli adempimenti a carico del contribuente ha dato in specie luogo ad una sorta di "terzo binario". Alle regole civilistiche, sulla redazione del bilancio, ed alle disposizioni fiscali, per la determinazione dei redditi, si sono in specie aggiunti ulteriori criteri, per identificare le voci del conto economico rilevanti ai fini del calcolo del valore aggiunto della produzione (vap).
        In sintesi, le complicazioni derivanti dall'estremo tecnicismo tipico della nuova disciplina hanno di gran lunga superato gli effetti di semplificazione connessi alla soppressione dei vecchi tributi.
        Quanto agli obiettivi di innovazione è possibile notare e confermare che non solo l'IRAP, ma anche le altre misure - adottate nel corso della passata legislatura e orientate nella medesima direzione, come la dual income tax- sono informate a princìpi favoristici e dirigistici. Viene esclusa la neutralità del sistema fiscale rispetto alle scelte degli operatori economici, indirizzate d'imperio verso specifiche forme di impiego dei fattori della produzione.
        Inoltre, l'introduzione dell'IRAP ha reso più gravoso il carico fiscale sulle imprese individuali, sui lavoratori autonomi e sugli enti non commerciali: questi soggetti, in precedenza esclusi dall'imposta locale sui redditi (ILOR), contribuiscono in specie attualmente per il 35 per cento al gettito complessivo dell'IRAP.
        Ma l'aspetto più negativo della nuova imposta è, senza dubbio, costituito dalla penalizzazione del lavoro.
        L'IRAP avrebbe dovuto detassare il lavoro e quindi favorire l'occupazione. Non è stato e non è così. E' stato ed è l'opposto.
        In specie, l'IRAP, tassando il costo del lavoro ed il costo del denaro, e non essendo deducibile dall'imposta sui redditi (come invece erano i vecchi contributi), non solo accresce rispetto al passato il carico fiscale sul lavoro, ma nel presente e per il futuro favorisce l'investimento in "robot" e/o in "macchine rubalavoro" (che non pagano l'IRAP), o all'estero (dove è possibile l'assunzione di operai stranieri, al posto degli italiani, senza pagare l'IRAP).
        Conseguentemente, l'imposta si è rivelata fortemente penalizzante per le imprese più "labour intensive", per i soggetti che fanno maggiormente ricorso al lavoro come essenziale fattore della produzione.
        Ne deriva una discriminazione inaccettabile, a danno del "capitale umano": uno dei valori che invece sono considerati più importanti, in questa legislatura, tra l'altro anche per accrescere la solidità e la competitività internazionale del nostro sistema produttivo.
        In questa direzione si collocano già del resto le misure contenute nell'articolo 4 della legge n. 383 del 2001. In particolare, gli incentivi fiscali per il potenziamento del sistema produttivo non sono previsti solo per l'acquisto di beni strumentali nuovi, ma anche per gli investimenti in "capitale umano". Dalle attività di formazione del personale addetto, all'attività produttiva, agli interventi a sostegno della creazione di asili nido aziendali, eccetera. La leva fiscale viene, così, utilizzata per favorire il soddisfacimento di primarie esigenze sociali dei lavoratori, non considerati come "fattori della produzione", ma come soggetti da valorizzare, tutelando anche la loro dimensione familiare.


9. Articoli 9 e 10.

        L'attuazione di una riforma fiscale così ampia ed intensa può essere solo graduale, tale da assicurare coerenza tanto con gli equilibri di finanza pubblica delineati negli strumenti di programmazione finanziaria adottati annualmente, quanto con gli impegni derivanti dai programmi di stabilità concordati con l'Unione europea.

        In particolare:

                a) la struttura flessibile propria del disegno della nuova IRPEF consente di modularne l'introduzione in funzione delle risorse via via disponibili. Non avrebbe dunque senso l'argomento negativo critico secondo cui la riforma avrebbe un "costo", stimato "ex ante". Un costo che polemicamente si vorrebbe rigido ed insostenibile.
        L'attuazione della riforma sarà invece "flessibile" e perciò "sostenibile", pur nella sua coerenza di fondo;

                b) per le altre parti della riforma, escluse ovviamente quelle a costo zero, la copertura sarà prodotta dall'ampliamento della base imponibile (prodotta dai nuovi meccanismi di competizione-attrazione; dal recupero di base imponibile, eccetera) e da economie di bilancio;

                c) "De-Tax" (od " A-Tax "). L'ammontare delle risorse per finanziare la De-Tax sarà determinato con legge finanziaria, mentre alla copertura parziale o totale del relativo onere si provvederà utilizzando una parte dei fondi che saranno qui accantonati per l'obiettivo della cooperazione internazionale.

        Per evitare effetti distributivi erratici e trasferimenti intertemporali di reddito inopportuni, il vincolo di bilancio aggregato è completato da una rilevante garanzia per i singoli settori istituzionali.
        L'introduzione della riforma, tenuto conto anche della riforma della previdenza, dovrà mantenere invariati i saldi dei singoli settori, in primo luogo delle famiglie e delle imprese, garantendo in questo modo da trasferimenti non intenzionali.
        Il vincolo di bilancio aggregato, come quello settoriale, saranno esplicitati anno per anno e settore per settore nel Documento di programmazione economico-finanziaria.
        In particolare, le esigenze di flessibilità del sistema riformato, coerentemente con le esposte necessità di attuazione graduale, richiedono che l'intervento di radicale rinnovamento del sistema fiscale si accompagni alla possibilità di interventi correttivi ed integrativi, nei due anni successivi al completamento della riforma. Interventi, questi, da attuare attraverso una serie di decreti legislativi da adottare nel termine di due anni dalla data di entrata in vigore della legge. Parallelamente, la possibilità di ulteriore intervento da parte del legislatore delegato deve intendersi rivolta anche all'introduzione di tutte le modificazioni legislative necessarie per il migliore coordinamento delle disposizioni vigenti, sulla base dei medesimi princìpi e criteri direttivi. Solo in questo modo è possibile garantire la costruzione complessiva e coerente di un sistema fiscale riformato e depurato dalle vischiosità derivanti dalle disarmonie previgenti.
        Come si è premesso, l'intervento in atto mira alla riforma del sistema fiscale statale. Ne deriva che il tema dei rapporti dello Stato con le regioni e gli enti locali, nella dimensione fiscale e finanziaria, resta transitoriamente garantito dagli attuali meccanismi qualitativi e quantitativi di finanza locale, comunque, sul presupposto e nella prospettiva che il completamento e l'attuazione del processo di riforma costituzionale, iniziato con la "novella" costituita dal Titolo V della parte seconda e da proseguire con la devoluzione, impegna insieme il Governo e gli altri soggetti del federalismo ad una parallela progressiva riforma dell'intero sistema di federalismo fiscale.
        Per assicurare che la verifica e il dibattito parlamentare sui decreti adottati dal Governo nell'esercizio delle deleghe conferite con il presente disegno di legge possano svilupparsi in maniera approfondita e integrale, salvaguardando le esigenze di completezza, qualificazione e sistematicità, si prevede l'istituzione di una Commissione parlamentare bicamerale chiamata ad esprimersi proprio sugli schemi dei decreti adottati per la costruzione della riforma in esame. La Commissione sarà composta complessivamente da trenta parlamentari, in misura paritetica tra senatori e deputati, nominati rispettivamente dal Presidente di ciascun ramo del Parlamento, nel rispetto della proporzione esistente tra i diversi gruppi parlamentari. Termini e modalità previsti per l'emanazione dei pareri richiesti, riprendendo forme già collaudate in passato per analoghi procedimenti, rispondono alle parallele esigenze di adeguato approfondimento specialistico e di massimo snellimento dei lavori. A questo fine, si prevede che il termine per l'espressione del parere sia di trenta giorni dalla data di trasmissione degli schemi di provvedimenti alla predetta Commissione, con la facoltà di richiedere una sola volta ai Presidenti delle Camere una proroga di non oltre venti giorni, in considerazione della complessità della materia o per il numero dei provvedimenti trasmessi nello stesso periodo all'esame della Commissione.