S. 848 – Delega al Governo in materia di occupazione
e mercato del lavoro

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 15 NOVEMBRE 2001

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Onorevoli Senatori. – La presente relazione accompagna un disegno di legge di delega proposto dal Governo al Parlamento al fine di essere autorizzato ad emanare decreti legislativi contenenti misure di particolare rilevanza e priorità per realizzare obiettivi di speciale importanza nell’ambito del disegno riformatore del mercato del lavoro in Italia contenuto nel «Libro Bianco sul mercato del lavoro in Italia. Proposte per una società attiva e per un lavoro di qualità» (ottobre 2001).

    Tali obiettivi riguardano:

        a) la realizzazione di un mercato del lavoro trasparente ed efficiente;

        b) il perseguimento di efficaci politiche della occupabilità prioritariamente rivolte ai lavoratori beneficiari di forme di integrazione al reddito;
        c) la introduzione di tipologie contrattuali utili a realizzare l’adattabilità delle imprese e dei lavoratori e ad allargare la partecipazione al mercato del lavoro di soggetti a rischio di esclusione sociale;
        d) la affermazione di un maggiore ruolo delle organizzazioni di tutela e rappresentanza, con particolare attenzione alle forme bilaterali, in funzione della gestione di attività utili alle politiche di occupabilità.

Misure per l’occupabilità nel mercato del lavoro

    Nel disegnare i diversi interventi di politica del lavoro e più in generale di politica economica e finanziaria, è intenzione del Governo fare costante riferimento ad un obiettivo complessivo di crescita occupazionale – più precisamente di crescita del tasso d’occupazione – verso i livelli concordati in sede europea. Intendimento del Governo è di procedere al confronto con le parti sociali e con gli altri attori istituzionali interessati avendo sempre questo obiettivo quantitativo di crescita come misura del proprio operare.

    Rispetto ai target europei (70 per cento e 60 per cento rispettivamente per il tasso di occupazione totale e femminile nel complesso delle classi d’età tra 15 e 64 anni, 50 per cento per quello dei 55-64enni) il divario che ancora caratterizza il nostro paese è particolarmente ampio. Avendo a riferimento il tasso di occupazione complessivo, l’aumento necessario per eliminarlo (nell’arco di un decennio) sarebbe pari all’incirca al triplo di quanto ottenuto nel quinquennio 1995-2000 e richiederebbe di replicare quanto, in ambito europeo, ottenuto nello stesso periodo solo da Olanda o Irlanda (facendo quindi meglio di Spagna, Finlandia o Portogallo), situazioni in cui la crescita occupazionale è stata innalzata da fattori peculiari, quali il forte sviluppo del part time.
    Nel delineare lo scenario macroeconomico della legislatura da poco avviata, il Documento di programmazione economico-finanziaria (DPEF) 2002-2006 ha fissato al 2006 un livello del tasso d’occupazione complessivo del 58,5 per cento (cinque punti in più rispetto all’anno 2000). Il raggiungimento di tale obiettivo richiede condizioni macroeconomiche favorevoli e garantirebbe un significativo miglioramento rispetto al quinquennio 1995-2000, soprattutto alla luce del fatto che, al contrario di quanto avvenuto in quest’ultimo quinquennio, i fattori demografici non giocheranno a favore della crescita dell’occupazione. L’obiettivo indicato è anche quello che il Governo ha esplicitato, in sede europea, come contributo italiano al raggiungimento dei target che l’Unione europea ha fissato, al 2005 ed al 2010, per l’insieme dei paesi membri.
    Le caratteristiche del nostro mercato del lavoro mostrano che abbiamo molta strada da percorrere prima di raggiungere gli obiettivi che, con riferimento ai tassi di occupazione, l’Unione europea ha indicato agli Stati membri. La disoccupazione giovanile, la disoccupazione di lunga durata, la concentrazione della disoccupazione nel Mezzogiorno, il modesto tasso di partecipazione delle donne e degli anziani, sono tutti fattori di debolezza strutturale della nostra economia che ne limitano il grado di competitività all’interno dell’Unione. L’elevata disoccupazione e il basso tasso di occupazione trovano origini lontane nel tempo e devono essere curati con interventi di carattere strutturale. Senza questi interventi vi è il pericolo che la politica di sviluppo del Govemo vada incontro a strozzature che ne possono limitare l’efficacia e le potenzialità.
    Le politiche attive si basano anzitutto sul miglioramento del sistema di diffusione delle informazioni nel mercato del lavoro, in particolare quelle sui posti vacanti, sui fabbisogni di personale, sulle possibilità di formazione rivolte ai giovani e ai lavoratori e, infine, sulle caratteristiche dei lavoratori disoccupati. Su questo terreno il nostro paese è strutturalmente arretrato e ciò pesa negativamente sul funzionamento di tutto il mercato del lavoro. L’assorbimento di una quota della disoccupazione strutturale e l’innalzamento del tasso di occupazione dipenderanno in misura rilevante dal successo che avranno le politiche di diffusione e di scambio di queste informazioni.
    Il Governo ritiene che l’attuale ordinamento giuridico del lavoro si limiti a realizzare la protezione del lavoratore in quanto titolare di una posizione lavorativa, garantendo agli insider una posizione di privilegio a scapito degli outsider, sostanzialmente abbandonati a se stessi da strutture di collocamento pubblico del tutto inadeguate. Se occorre da un lato rimodulare convenientemente la protezione accordata al lavoratore occupato, dall’altro è necessario assicurare una più alta tutela sul mercato. Sul piano del rapporto di lavoro si tratta quindi di stimolare l’adattabilità dei dipendenti (vale a dire flessibilità e formazione); su quello del mercato le autorità comunitarie richiedono agli Stati membri di realizzare un sistema pubblico di servizi all’impiego che, integrando e lasciando competere al tempo stesso operatori pubblici e privati, garantisca l’occupabilità. È del tutto evidente che l’ordinamento italiano contrasta apertamente con tali indicazioni comunitarie: alla iper-tutela degli occupati si contrappone, infatti, la sotto-tutela dei disoccupati.
    L’Italia non si è adeguata negli ultimi anni alla richiesta fondamentale rivoltale dalle autorità comunitarie nell’ambito della Strategia europea per l’occupazione, cioè di riorientare in forma preventiva il proprio sistema di servizi pubblici all’impiego. Nel paese, a livello di Governo ma anche di regioni e di enti locali, c’è stata una forte sottovalutazione di questi impegni comunitari finalizzati a migliorare la capacità di inserimento professionale del nostro sistema pubblico di collocamento.
    Il Governo intende raccogliere le raccomandazioni rivolte dall’Unione europea nella logica della occupabilità, proseguendo con determinazione nella modernizzazione dei servizi pubblici per l’impiego e per questa ragione richiede al Parlamento la concessione di una delega che lo autorizzi ad intervenire in questa materia con una serie di primi provvedimenti.

Servizi pubblici all’impiego

    Il Governo ritiene, infatti, urgente avviare un processo riformatore delle regole sul mercato del lavoro, nel senso della massima semplificazione delle procedure di collocamento, del più efficace potenziamento delle azioni di prevenzione e della massima efficacia dei servizi, attraverso un modello che contempli la cooperazione e la competizione tra strutture pubbliche, convenzionate e private. Pertanto, devono essere individuate e sistematizzate le attività riconducibili ad una residua funzione pubblica (anagrafe, scheda professionale, controllo dello stato di disoccupazione involontaria e della sua durata, azioni di sistema) da assicurare mediante i servizi pubblici all’impiego e strutture convenzionate (pubbliche e private); mentre occorre affidare al libero mercato le attività di servizio, in un regime di competizione e concorrenza tra i servizi pubblici e gli operatori privati autorizzati.

    Un’importante direzione di intervento concerne un regime di competizione e, al tempo stesso, di cooperazione fra attori privati e servizio pubblico. La cooperazione non deve avvenire a discapito del pieno dispiegarsi dei meccanismi concorrenziali tra i diversi operatori, ma sarebbe improponibile per l’operatore pubblico fare a meno della cooperazione con i privati, immaginando di poter gestire efficacemente in-house l’intero spettro di servizi. Il ricorso a meccanismi di mercato in una logica di outsourcing di servizi andrebbe perciò opportunamente valorizzato anche per quanto concerne la fornitura di servizi il cui disegno generale rimanga nelle mani dell’operatore pubblico.
    Più in dettaglio, vale la pena ricordare in tema di collocamento pubblico che il decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, non ha introdotto modifiche alle procedure del collocamento, inteso come «funzione pubblica» e «pubblico servizio», che restano tuttora disciplinate dalla legge 29 aprile 1949, n. 264, e successive modificazioni. All’atto del decentramento delle funzioni alle regioni ed alle province, pertanto, le procedure di collocamento restavano caratterizzate da un impianto normativo fondato sui seguenti elementi: obbligo di iscrizione dei lavoratori nelle liste di collocamento; classificazione degli iscritti basata su «classi di precedenza nell’avviamento al lavoro»; stato di disoccupazione coincidente con la «iscrizione nella prima classe delle liste»; riconoscimento dello stato di disoccupazione anche agli occupati a part-time per meno di 20 ore settimanali e a tempo determinato per meno di quattro mesi nell’anno solare (cosiddetti disoccupati amministrativi); obbligo di conferma della permanenza nello stato di disoccupazione mediante presentazione all’ufficio di collocamento almeno una volta all’anno (cosiddetta revisione periodica), pena la cancellazione; cancellazione in caso di rifiuto di occupazione a tempo indeterminato corrispondente ai requisiti professionali del lavoratore; presenza di discipline specifiche per settore, per status o per tipologia di rapporto di lavoro (cosiddetti collocamenti speciali e liste speciali) ed in particolare il collocamento dei lavoratori agricoli, della gente di mare, dei lavoratori dello spettacolo, delle categorie protette, le liste regionali di mobilità, le liste part-time, gli elenchi dei lavoranti a domicilio, la lista dei lavoratori italiani disponibili a lavorare all’estero, la lista nazionale dei lavoratori extra-comunitari ancora residenti all’estero.
    Giova ricordare inoltre che nel sistema attuale vige ancora l’obbligo per i datori di lavoro privati e per gli enti pubblici economici di assumere i lavoratori iscritti nelle liste di collocamento, tramite assunzione diretta e comunicazione successiva entro cinque giorni (precetto sul quale si incardinava il divieto di mediazione così come disciplinato dalla citata legge n. 264 del 1949), nonché l’obbligo per le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici non economici di assumere i lavoratori con mansioni esecutive ed ausiliarie mediante richiesta numerica di «avviamento a selezione».

Collocamento pubblico

    L’impianto procedurale sopra descritto ha prodotto per anni fenomeni molto distorsivi vincolando gli uffici di collocamento ad una gestione formalistica e burocratica delle «liste», in una logica di mediazione formale e non di mediazione effettiva. Peraltro, se questo impianto poteva avere un senso in presenza di un sistema di avviamento al lavoro fondato sulla richiesta numerica e sulla preventiva autorizzazione dell’ufficio di collocamento (cosiddetto nulla-osta numerico o nominativo), perde ogni significato con la riforma delle procedure di assunzione introdotta dal decreto-legge 1º ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, che ha introdotto la «assunzione diretta», pur se limitatamente nei confronti di lavoratori «iscritti nelle liste».

    Nella consapevolezza che senza una radicale revisione dell’impianto procedurale del collocamento qualsiasi riforma dei servizi sarebbe stata preclusa, già nelle more dell’attuazione del decentramento amministrativo il Ministero del lavoro e le regioni avevano avviato nella scorsa legislatura un confronto per realizzare una riforma organica del collocamento inteso «come funzione pubblica residua». La riforma è stata attuata mediante due provvedimenti, il decreto legislativo 21 aprile 2000, n. 181, e il decreto del Presidente della Repubblica 7 luglio 2000, n. 442. Il quadro normativo è stato completato con due decreti ministeriali attuativi del decreto del Presidente della Repubblica citato (anagrafe e scheda professionale) entrati in vigore il 15 giugno 2001.
    Tale intervento normativo appare del tutto non convincente anche sotto un profilo eminentemente tecnico e sta producendo effetti controproducenti sull’azione dei servizi. Val la pena rilevare ad esempio che i due provvedimenti da ultimo citati, originariamente concepiti come un corpo organico, in realtà sono stati emanati separatamente e nell’ordine logico inverso (avrebbe dovuto prima disporsi l’abolizione delle liste e successivamente introdursi il nuovo stato di disoccupazione). Non si è provveduto poi all’abrogazione esplicita della aggrovigliata normativa precedente, creandosi così sul piano normativo ed operativo una situazione insostenibile a causa della sovrapposizione di norme che producono effetti inversi a quelli voluti. Fra questi occorre ricordare la perdurante vigenza dei collocamenti speciali e delle liste speciali, di nessuna utilità pratica e gestionale, la duplice/parallela definizione giuridica dello stato di disoccupazione (l’una ai fini delle azioni di prevenzione l’altra ai fini dell’accesso ai benefici di legge), il duplice/parallelo sistema di controllo, conservazione e perdita dello stato di disoccupazione, la mancata semplificazione delle procedure di assunzione (le norme previste non sono state ammesse a registrazione e pertanto sopravvive la vecchia farraginosa e punitiva disciplina solo nei confronti dei datori di lavoro privati), l’impossibilità di stabilire nuove e più semplici procedure per l’avviamento a selezione presso gli enti pubblici in quanto manca l’atto di indirizzo del Ministro del lavoro.
    Il Governo quindi chiede di poter intervenire per snellire e semplificare questa congerie di normative stratificatesi nel tempo che di fatto compromettono il funzionamento dei servizi pubblici per l’impiego. Un intervento tanto più necessario in quanto si è profondamente evoluto lo stesso quadro costituzionale a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.

Incontro domanda e offerta

    L’articolo 1 contiene pertanto una delega al Governo, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per la revisione della disciplina dei servizi pubblici e privati per l’impiego, nonché in materia di intermediazione e interposizione privata nella somministrazione di lavoro.

    Allo scopo di realizzare un sistema efficace e coerente di strumenti intesi a garantire trasparenza al mercato del lavoro e a migliorare le capacità di inserimento professionale dei disoccupati e di quanti sono in cerca di una prima occupazione, il Governo viene delegato a realizzare una riforma organica delle regole sul mercato del lavoro, nel senso della massima semplificazione delle procedure di collocamento. L’obiettivo è quello di concorrere al potenziamento delle azioni di prevenzione della disoccupazione, mediante una migliore efficacia dei servizi per l’impiego, attraverso un modello che contempli la cooperazione e la competizione tra strutture pubbliche, organismi convenzionati e agenzie private di collocamento. In questa prospettiva, vengono sistematizzate le attività riconducibili a una residua funzione pubblica (anagrafe, scheda professionale, controllo dello stato di disoccupazione involontaria e della sua durata, azioni di sistema) da assicurare mediante i servizi pubblici all’impiego e strutture convenzionate (pubbliche e private), mentre vengono affidate al libero mercato le attività di servizio, in un regime di competizione e concorrenza tra i servizi pubblici e gli operatori privati autorizzati.
    Il Governo viene dunque delegato a un intervento di revisione e razionalizzazione delle procedure di collocamento al fine di orientare i servizi dell’impiego all’attuazione di misure di promozione all’inserimento del mercato del lavoro. Ciò dovrà avvenire in particolare mediante:

        a) determinazione dei criteri per l’individuazione dei soggetti potenziali destinatari delle misure di promozione, definendone le modalità per l’accertamento, la durata e la perdita delle condizioni di disoccupazione. Si tratta, com’è evidente, di un presupposto indispensabile per potere gestire il sistema degli ammortizzatori e le agevolazioni per i disoccupati di lunga durata;

        b) conferma del principio della assunzione diretta generalizzata;
        c) sostituzione del sistema delle liste di collocamento con un’anagrafe dei lavoratori;
        d) estensione generalizzata a tutti i datori di lavoro e per ogni categoria di lavoratori dell’obbligo di comunicazione (agli organi del collocamento) della assunzione, trasformazione e cessazione del rapporto e delle esperienze lavorative poste in essere. La generalizzazione dell’obbligo costituisce condizione necessaria per una gestione in tempo reale dell’anagrafe dei lavoratori;
        e) semplificazione degli oneri amministrativi e burocratici in capo ai lavoratori e alle imprese;
        f) unificazione delle procedure di collocamento attraverso la soppressione delle discipline specifiche di settore ad eccezione del collocamento dei disabili, della gente di mare e dello spettacolo, caratterizzate da innegabili peculiarità che consigliano il mantenimento di un separato regime;
        g) abrogazione di tutte le norme incompatibili con la nuova concezione del collocamento, ivi inclusa la citata legge n. 264 del 1949, essendo evidentemente più opportuno normare funditus la materia senza dar luogo a discipline rese di difficile applicazione da semplici interventi novellatori, nonché in virtù della diversa ratio che, come già esposto, deve ispirare i nuovi interventi che avverranno sulla base della presente legge di delegazione.
    Il Governo ritiene che occorra agire affinché si fondi stabilmente un sistema maggiormente concorrenziale fra pubblico e privato, consentendo di gestire anche in forma imprenditoriale l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Appare urgente, a tale fine, innanzitutto superare il vincolo dell’«oggetto esclusivo» e consentire l’attività di operatori privati polifunzionali, variamente capitalizzati in relazione ai servizi autorizzati ed opportunamente vigilati.
    L’attuale normativa sulle agenzie private di collocamento, a causa degli eccessivi appesantimenti burocratici che la caratterizzano, è stata la causa principale dell’evidente insuccesso che finora ha contrassegnato il ruolo degli operatori privati, con l’eccezione delle società di lavoro temporaneo.
    Il Governo considera allo stesso modo necessario rivedere pienamente la normativa introdotta per regolare il ruolo degli operatori privati impegnati nel lavoro temporaneo, nella ricerca e selezione del personale, nel supporto alla ricollocazione professionale e, più in generale, che si occupano a vario titolo della mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Il regime farraginoso e inutilmente complesso varato nella scorsa legislatura appare di impossibile gestione ed il Governo ritiene si debba pervenire ad un unico regime autorizzatorio per tutte le organizzazioni private impegnate nel servizio di collocamento nel mercato del lavoro. Una regolazione più semplice ed efficace consentirà, peraltro, un più deciso contrasto di tutte le forme di abusivismo. Ugualmente, il Governo auspica che venga impressa una decisa accelerazione alle misure che possano favorire la diffusione di operatori privati polifunzionali dedicati ad un efficiente ed equo incontro tra domanda e offerta.

Intermediazione di manodopera e ...

    Per quanto riguarda in particolare il sistema del collocamento privato e della somministrazione di manodopera, il Parlamento, sul presupposto che appesantimenti burocratici e incertezza del quadro normativo di riferimento sono due delle principali cause che hanno, da un lato, impedito il decollo delle agenzie private di collocamento di cui all’articolo 10 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n. 469, e, dall’altro lato, limitato le enormi potenzialità delle agenzie di lavoro temporaneo nella prospettiva di una riattivazione del mercato del lavoro in Italia, delega il Governo a dare corso a una semplificazione del regime autorizzatorio e dei relativi oneri amministrativi e finanziari mediante:
        a) la previsione di un unico regime autorizzatorio per tutte le organizzazioni private impegnate nel servizio del collocamento del mercato del lavoro, graduato in funzione del tipo di attività o servizio svolto e comprensivo delle ipotesi di trasferimento della autorizzazione. Una regolazione più semplice ed efficace consentirà, tra l’altro, un più deciso contrasto di tutte le forme di abusivismo:

        b) il superamento dell’attuale regime di esclusività dell’oggetto sociale rispetto sia alla fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo e sia alla intermediazione tra domanda e offerta di lavoro;
        c) la ridefinizione dell’attuale regime del trattamento dei dati relativi all’incontro domanda e offerta di lavoro che oggi è sottoposto a sistemi autorizzativi e vincoli che vanno ben oltre la necessità di validare economicamente le agenzie di intermediazione e somministrazione di manodopera;
        d) una semplificazione delle procedure di autorizzazione al lavoro dei cittadini non comunitari da compiere attraverso un potenziamento del coordinamento tra disposizioni in materia di lavoro degli extracomunitari e disposizioni in materia di incontro e domanda e offerta di lavoro.

    In questa prospettiva, al fine di assicurare una ottimizzazione del ruolo degli intermediari privati, il Governo è altresì delegato al riordino di tutta la disciplina dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro in un colpo normativo unitario, con contestuale abrogazione della normativa previgente anche al fine di superare le numerose antinomie normative.

... relativo regime autorizzatorio

    Al fine di favorire l’incontro di domanda e offerta di lavoro nonché di aprire il mercato della mediazione privata alle imprese di fornitura di lavoro temporaneo, occorre superare l’attuale divieto posto dalla norma citata, prevedendo espressamente che esse possano, in presenza dei requisiti stabiliti dall’articolo 10 del decreto legislativo 23 dicembre 1997, n.  469, modificato dall’articolo 117 della legge 23 dicembre 2000, n.  388 (legge finanziaria per il 2001), svolgere anche le attività di mediazione nonché di ricerca, selezione e di supporto alla ricollocazione professionale. Poiché l’articolo 10 appena citato prevede tuttavia l’esclusività dell’oggetto sociale anche per le imprese che attualmente svolgono mediazione, ricerca e selezione o supporto alla ricollocazione professionale, anche tale disposizione deve essere rivista nell’ambito di un disegno riformatore che riconduca ad un unico sistema autorizzatorio l’intervento dei privati nella mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Una riforma in tal senso equiparerà la disciplina italiana a quella già vigente in Germania, nel Regno Unito e nei Paesi Bassi.

    Le rigidità nell’utilizzo della forza-lavoro introdotte dalla legge 23 ottobre 1960, n.  1369, del resto, non trovano pari nella legislazione degli altri paesi e penalizzano la posizione delle aziende italiane nel confronto globalizzato. Pratiche di outsourcing, ampiamente diffuse in altri contesti (ad esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna), sono in Italia tuttora vietate. Il riferimento è, in particolare, all’istituto del cosiddetto leasing di manodopera: una tecnica innovativa di gestione del personale imperniata su rapporti con agenzie specializzate nella fornitura «a carattere continuativo e a tempo indeterminato» (e non a termine, come nel lavoro interinale) di parte della forza-lavoro di cui l’azienda ha bisogno per alimentare il processo produttivo. Agenzie, è bene precisare, che opererebbero in forme sicuramente più trasparenti e con maggiori tutele, di legge e di contratto collettivo, di quanto non accada oggi per effetto di vincoli soffocanti.
    Anche rispetto ai processi di esternalizzazione del lavoro il Governo reputa dunque necessario avviare un percorso di riforma complessiva della materia, di modo che le istanze di tutela del lavoro, che devono essere mantenute rispetto a forme di speculazione parassitaria sul lavoro altrui, non pregiudichino la modernizzazione dei meccanismi di funzionamento del mercato del lavoro.
    Nella consapevolezza che una abrogazione pura e semplice delle leggi n.  264 del 1949 e n.  1369 del 1960 è una strada non praticabile in quanto ciò renderebbe superfluo il regime autorizzatorio per gli intermediari privati, con pregiudizio sia delle esigenze di tutela del lavoro sia dell’interesse pubblico a che le agenzie private operino in forma genuinamente imprenditoriale e senza scopo di speculazione del lavoro altrui, la delega di cui al presente disegno di legge è finalizzata a realizzare una riconsiderazione sostanziale ed evolutiva dei divieti di speculazione sul lavoro altrui volta ad affermare e/o precisare:

        a) in materia di collocamento: il divieto generale di mediazione privata in assenza di apposita autorizzazione/accreditamento;

        b) in materia di ruolo dei privati nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro: superamento dell’oggetto sociale esclusivo sia delle imprese di fornitura di prestazioni di lavoro temporaneo di cui alla legge 24 giugno 1997, n.  196, articolo 2, sia delle agenzie private di collocamento previste dall’articolo 10, comma 2, del decreto legislativo n.  469 del 1997, garantendo il necessario periodo transitorio di graduale adeguamento per le società già costituite, al fine di non accollare loro oneri che potrebbero comprometterne la stessa sopravvivenza sul mercato;
        c) in materia di regime autorizzatorio degli intermediari privati: valutazione della natura giuridica dei soggetti richiedenti l’autorizzazione a svolgere l’intermediazione tra domanda e offerta, con particolare riferimento a quelli non svolgenti attività a fine di lucro, per cui la totalità degli intermediari dovrà essere ricompresa nel nuovo regime, ancorchè si debba tener conto del caso particolare in cui siano associazioni non riconosciute (rappresentative dei datori o prestatori di lavoro, anche nell’ipotesi in cui sia stato costituito un ente bilaterale) a svolgere per i propri iscritti tale genere di attività;
        d) in materia di lavoro temporaneo: questa tipologia sarà utilizzata per promuovere l’integrazione occupazionale di soggetti a rischio di esclusione sociale e verrà altresì previsto il divieto di somministrazione di manodopera in assenza di apposita autorizzazione/accreditamento, ma con contestuale allargamento della fattispecie da utilizzare non solo in presenza di ragioni di carattere temporaneo tipizzate dal legislatore o dalla contrattazione collettiva, ma anche per situazioni strutturali, purché giustificate da ragioni tecniche, organizzative e produttive (allargando così le ipotesi di ricorso alla fattispecie fino a ricomprendere lo staff leasing, e cioè la somministrazione di manodopera a tempo indeterminato in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo);
        e) in materia di somministrazione di lavoro altrui: i criteri di distinzione tra appalto e interposizione, ridefinendo contestualmente i casi di interposizione illeciti (non più in termini meramente regolatori, ma in assenza di ragioni tecniche, organizzative o produttive ovvero in relazione alla lesione di diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo del prestatore di lavoro);
        f) il regime della solidarietà tra fornitore e utilizzatore in caso di somministrazione di lavoro altrui;
        g) in particolare, con riferimento alla somministrazione di manodopera la delega prevede:

            – la definizione di un corpo normativo inderogabile minimo, applicabile a tutti i rapporti di lavoro, al di là della qualificazione del contratto e delle modalità concrete di esecuzione del lavoro (ivi comprese le tipologie di somministrazione di lavoro, di staff leasing e i contratti di appalto);

            – conferma di un regime sanzionatorio civilistico e penalistico per le forme di speculazione parassitaria sul lavoro altrui;
            – aggiornamento degli indici legali di distinzione tra interposizione illecita e appalto di manodopera;
            – il rinvio a un meccanismo certificatorio ai fini della distinzione pratica tra interposizione illecita e appalto genuino, sulla base di una griglia di indici e codici di comportamento elaborati in sede di enti bilaterali ovvero amministrativa, secondo il modello certificatorio previsto al comma 10.

    La delega prevede infine una revisione dell’articolo 2112 del codice civile, così come modificato dal decreto legislativo n.  18 del 2001, in tema di trasferimento di azienda, affinchè anche questo profilo dei processi di esternalizzazione venga disciplinato conformemente alla ratio complessiva del presente provvedimento, con particolare riguardo all’eterogenesi dei fini stessi dell’articolo 2112 del codice civile e l’irrilevanza del consenso del lavoratore ceduto ed alla penalizzazione discendente dal requisito della «autonomia funzionale preesistente». In particolare essa deve essere basata sui seguenti criteri direttivi: 1) eliminazione del requisito dell’autonomia funzionale del ramo di azienda preesistente al trasferimento; 2) previsione di un regime particolare per le ipotesi in cui il contratto di appalto sia connesso ad una cessione di ramo di azienda, stabilendo in tale caso una solidarietà tra appaltante e appaltatore.

    Appare consigliabile riordinare la complessa normativa che risulterà dal successivo intervento di normazione secondaria all’interno di un testo unico dedicato complessivamente all’incontro fra domanda e offerta di lavoro.

Incentivi finanziari all’occupazione

    L’articolo 2 contiene la delega al Governo, da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per ridefinire, nel rispetto degli orientamenti annuali della Unione europea in materia di occupazione e nel quadro dei provvedimenti attuativi della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n.  3, il sistema degli incentivi finanziari alla occupazione, ivi compresi quelli relativi alla autoimprenditorialità e all’autoimpiego, in funzione della realizzazione di un sistema organico di misure volte a favorire le capacità di inserimento professionale dei soggetti privi di occupazione, dei disoccupati di lungo periodo ovvero a rischio di esclusione sociale o comunque aventi una occupazione di carattere precario e a bassa qualità, includendo in tale ambito anche i soggetti a basso reddito.

    La delega contempla, tra i criteri direttivi:

        a) la razionalizzazione del sistema degli incentivi all’occupazione, di tipo finanziario ma anche di altra natura così da ridisegnare l’attuale assetto collegato a sua volta ad un contesto giuslavoristico caratterizzato da forti elementi di rigidità, anche al fine di evitare sovrapposizioni e spreco di risorse pubbliche, mediante la realizzazione di un regime generale avente al suo interno articolazioni e graduazioni in connessione con le caratteristiche degli interessati e con il grado di svantaggio occupazionale delle diverse aree territoriali;

        b) l’articolazione delle misure di incentivazione finanziaria, anche in relazione alla natura a tempo determinato o indeterminato del rapporto di lavoro, agevolando la stabilizzazione attraverso la trasformazione di assunzioni a termine in occupazioni stabili. Tali misure naturalmente possono comprendere l’incentivazione anche delle forme di esperienze di lavoro come i tirocinii di cui all’articolo 5, comma 1, lettera c) del presente disegno di legge;
        c) la revisione del sistema degli incentivi al ricorso a prestazioni di lavoro a tempo parziale su base volontaria, anche attraverso la sperimentazione di forme di incentivazione economica erogate direttamente al prestatore di lavoro, in modo da contribuire a una maggiore diffusione della fattispecie e contribuire in questo modo all’innalzamento del tasso di occupazione regolare nel nostro paese;
        d) previsione di un sistema di incentivi collegati alla corresponsione di emolumenti in occasione di vertenze individuali di lavoro definite in sede arbitrale;
        e) collegamento delle misure d’incentivazione finanziaria con le politiche di sviluppo territoriale e coordinamento tra la disciplina sulla verifica dello stato di disoccupazione e delle relative sanzioni, quella sugli ammortizzatori sociali e le azioni di inserimento. Le finalità perseguite concernono l’esigenza di «attivare» i percettori di ammortizzatori sociali, di legare politiche attive e politiche passive, di coniugare politiche del lavoro e politiche di sviluppo, entrambe essenziali al fine di un rafforzamento delle prospettive di crescita delle regioni svantaggiate, in primo luogo del Mezzogiorno;
        f) l’introduzione di meccanismi automatici di incentivazione a favore delle imprese e dei lavoratori che investano in attività di formazione continua. Il ricorso a meccanismi automatici in una logica di mercato dovrebbe, nello stimolare la domanda, favorire un graduale adeguamento della struttura dell’offerta formativa, troppo spesso ancora autoreferenziale e scollegata dalle esigenze della domanda. Si prevede anche la possibilità di stabilire forme di sgravio parziale dal contributo integrativo stabilito dall’articolo 25, quarto comma, della legge 21 dicembre 1978, n. 845, rivedendone il finanziamento con risorse disponibili e rivedendone le modalità di utilizzazione in funzione delle finalità formative.

    La delega introduce per la prima volta in questo comma una nuova espressione («contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative» sul piano locale/territoriale e nazionale) che si distingue da quella preventivamente utilizzata («contratti collettivi stipulati dalle associazioni...» e consimili) dove si faceva riferimento ad una pluralità di parti sociali. Poiché tale locuzione innovativa è utilizzata anche in altri punti della presente delega, appare opportuno precisare che il riferimento è ad intese che possano eventualmente essere sottoscritte non da tutte le associazioni, dell’una e dell’altra parte, definibili come «comparativamente rappresentative» (utilizzando una formula già da tempo introdotta nell’ordinamento per evitare accordi o contratti stipulati da organizzazioni sindacali non genuine o comunque di incerta rappresentatività), ma soltanto da alcune di esse.

    Tale previsione è finalizzata a garantire certezza interpretativa al fenomeno degli «accordi separati», rafforzandone la validità sulla base del principio del «reciproco riconoscimento», del tutto fondamentale nel diritto delle obbligazioni e comunque affermato recentemente anche in sede comunitaria. È appena il caso di sottolineare che la nuova formula legislativa introdotta non pregiudica accordi raggiunti tra tutte le organizzazioni definibili come «comparativamente rappresentative», evitando soltanto il più possibile controversie interpretative con riferimento ai risultati dell’attività negoziale così conclusa.
    Il riferimento al livello nazionale ed a quello territoriale della contrattazione collettiva altro non costituisce se non il riconoscimento legislativo di una tendenza da tempo affermata dalle parti sociali di decentrare, almeno in parte, la loro attività negoziale, ancorandola più direttamente al territorio.

Ammortizzatori sociali

    L’articolo 3 contiene la delega al Governo, da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per ridefinire la disciplina vigente in materia di ammortizzatori sociali e strumenti a sostegno del reddito a base assicurativa o a totale carico delle imprese, senza oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato. L’obiettivo è quello di realizzare l’integrazione tra ammortizzatori sociali e interventi formativi, prevedendo forme di formazione/orientamento per i beneficiari degli ammortizzatori sociali. Peraltro, deve essere salvaguardato tanto il principio di omogeneità nelle regole dei diversi trattamenti, quanto il principio di differenziazioni tra comparti e settori in corrispondenza di schemi addizionali totalmente autofinanziati. Il riferimento ad un primo riordino chiarisce come, alla luce dell’obiettivo di assicurare un graduale calo della pressione fiscale e contributiva sul lavoro, il passaggio dal tradizionale sistema di ammortizzatori sociali ad un sistema più esteso dovrà essere predisposto gradualmente in relazione non solo ai maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato ma anche alla rivisitazione degli attuali ammortizzatori sociali e schemi di integrazione al reddito, anche esaminando i risultati di esperimenti quali il reddito minimo di inserimento, che inducono a doverosa cautela.

    La delega fa riferimento ai seguenti princìpi:

        a) revisione del sistema delle tutele in caso di disoccupazione e in costanza di rapporto di lavoro, avuto riguardo alle tipologie di trattamento su base assicurativa e a quelle su base solidaristica, alle condizioni di ammissibilità al trattamento, alla intensità, durata e al profilo temporale dei trattamenti. In tale quadro ridefinizione delle soglie di lavoro che danno diritto alle indennità di disoccupazione con requisiti ridotti;

        b) assetto proattivo delle tutele in modo da non disincentivare il lavoro e ridurre per quanto possibile la permanenza nella condizione di disoccupato ed il lavoro non dichiarato. In questo quadro definizione delle condizioni soggettive per la continuità nel godimento delle prestazioni erogate dagli ammortizzatori sociali, legandole alla condizione di ricerca attiva del lavoro da parte del disoccupato, alla sua disponibilità ad accettare offerte di lavoro o a partecipare ad interventi formativi o a progetti proposti dalle strutture pubbliche per l’impiego nell’esercizio delle funzioni loro assegnate, nel senso della Strategia europea per l’occupazione;
        c) razionalizzazione del sistema delle aliquote preordinate al finanziamento del sistema degli ammortizzatori sociali, avendo presente gli obiettivi di trasparenza, semplificazione, omogeneizzazione dei criteri di inquadramento delle aziende e di ripartizione del carico contributivo tra datori di lavoro, lavoratori e Stato; possibilità di scegliere differenti basi imponibili per il calcolo dei contributi e di introdurre disincentivi e penalizzazioni;
        d) estensione delle tutele a settori e situazioni attualmente non coperti, in modo da tener conto delle specificità e delle esigenze dei diversi contesti sulla base delle priorità individuate in sede contrattuale o a seguito di specifiche intese tra le parti sociali interessate;
        e) ridefinizione dei criteri per l’attribuzione della contribuzione figurativa per le diverse tipologie di soggetti e situazioni;
        f) semplificazione dei procedimenti autorizzatori, anche mediante interventi di delegificazione, garantendo flessibilità nella gestione delle crisi e assicurando una gestione quanto più possibile anticipatrice;
        g) adozione, in favore dei lavoratori interessati da processi di riorganizzazione e/o ristrutturazione aziendale, di interventi formativi nell’ambito di piani di reinserimento, definiti in sede aziendale o territoriale da associazioni rappresentative dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative, anche utilizzando i fondi di cui all’articolo 118 della legge 23 dicembre 2000, n. 388;
        h) monitoraggio dell’offerta formativa delle regioni rivolta ai soggetti in condizione di temporanea disoccupazione, al fine di garantire agli stessi prestazioni corrispondenti agli impegni assunti in sede di Unione europea per la definizione dei Piani nazionali per l’occupazione.

Agenzie tecniche strumentali

    L’articolo 4 contiene la delega al Governo per procedere, con norme anche di natura interpretativa, entro un anno dall’entrata in vigore della legge, al riordino complessivo degli organi e strumenti di analisi e monitoraggio dei fenomeni di esclusione sociale e di funzionamento del mercato del lavoro. In quest’ambito si prevede il riordino e la ridefinizione delle funzioni dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (ISFOL) e Italia Lavoro spa in quanto sono agenzie tecnico-strumentali del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di cui il Governo, le regioni e gli enti locali possono avvalersi per il perseguimento delle finalità proprie delle politiche attive del lavoro.

L’adattabilità: flessibilità e formazione nel rapporto di lavoro

    Il Governo italiano condivide pienamente la affermazione della Commissione europea secondo cui è necessario procedere organicamente ad una modernizzazione dell’organizzazione e dei rapporti di lavoro, così come espressa nel Libro Verde Partnership for a new organisation of work (COM/97/128) e quindi nella Comunicazione Modernising the organisation of work – a positive approach to change (COM/98/592). Tale posizione si è poi consolidata all’interno delle «linee guida sull’occupazione» nel quadro del processo di Lussemburgo, dove è stato individuato un pilastro apposito, quello della «adattabilità» che impone agli Stati membri obblighi molto precisi.

    Giova ricordare in proposito che la “linea guida“ 14 dell’allegato alla proposta di decisione del Consiglio relativa a orientamenti per le politiche degli Stati membri a favore dell’occupazione per il 2002 (CNS 2001/208) prevede che «gli Stati membri, se del caso insieme con le parti sociali o sulla scorta di accordi negoziati da queste ultime:

        – esamineranno il quadro normativo esistente e vaglieranno proposte relative a nuovi provvedimenti e incentivi per assicurarsi che essi contribuiscano a ridurre gli ostacoli all’occupazione, ad agevolare l’introduzione di un’organizzazione del lavoro moderna e ad aiutare il mercato del lavoro ad adeguarsi ai mutamenti strutturali in campo economico;

        – al tempo stesso, tenendo in considerazione la crescente diversificazione delle forme di lavoro, esamineranno la possibilità di contemplare nella normativa nazionale tipologie contrattuali più flessibili e faranno in modo che coloro che lavorano con nuovi contratti di tipo flessibile godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevata, compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori (...)».

    È bene tenere presente inoltre che la “linea guida“ 15 del citato allegato tratta della necessità di sostenere l’adattabilità nelle aziende nell’ambito dell’apprendimento lungo tutto l’arco della vita. A tal proposito si prevede che:
        – «le parti sociali, a tutti i livelli appropriati, sono invitate, se del caso, a concludere accordi sull’apprendimento lungo tutto l’arco della vita al fine di agevolare l’adattabilità e l’innovazione, in particolare nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. In tale contesto dovrebbero essere poste le condizioni per offrire entro il 2003 a ogni lavoratore un’opportunità di apprendere le tecniche della società dell’informazione».
    Per quanto attiene alla sua diretta responsabilità il Governo dichiara di considerare urgente predisporre misure di modernizzazione, auspicabilmente concordate con le parti sociali, anche al fine di facilitare la transizione verso un’economia fondata sulla conoscenza, così come sottolineato dalle conclusioni del Consiglio europeo di Lisbona. Del resto, la stessa «Agenda di Politica Sociale», concordata al Consiglio europeo di Nizza, insiste sull’importanza di adattare la regolazione dei rapporti e dei mercati del lavoro al fine di creare un opportuno equilibrio tra flessibilità e sicurezza, invitando apertamente le parti sociali a continuare nel loro dialogo sull’organizzazione del lavoro ed in particolare sulle nuove forme di occupazione.

    Non è certo revocabile il dubbio che il progresso tecnologico così come i mutamenti nelle condizioni di mercato abbiano, negli ultimi decenni, modificato profondamente l’ambiente nel quale le imprese si trovano ad operare. Si è così determinata una crescente necessità di reagire con maggiore flessibilità ai cambiamenti sul fronte dell’offerta e della domanda, mentre gli sviluppi tecnologici hanno consentito alle imprese di introdurre modalità nuove e più flessibili nell’organizzazione dei processi produttivi. Al fine di trarre pieno vantaggio da questo potenziale evolutivo, appare evidente – nella valutazione delle autorità comunitarie, del tutto condivisa dal Governo italiano – la necessità di adattare il presente quadro regolatorio, legislativo e contrattuale, a queste nuove circostanze. L’attuale quadro regolatorio riflette, infatti, un’organizzazione del lavoro oggi completamente superata.

Part-time

    Per quanto riguarda in particolare il contesto italiano, la modernizzazione dell’ordinamento giuridico e contrattuale del lavoro è inoltre da considerarsi componente essenziale di una politica che intende contrastare il preoccupante fenomeno del lavoro non dichiarato e clandestino. Nella passata legislatura sono stati realizzati interventi importanti (ad esempio la legge 24 giugno 1997, n. 196, il cosidetto «Pacchetto Treu») ma ancora del tutto insufficienti. Si è proceduto tuttavia troppo lentamente, scontando pregiudiziali ideologiche incompatibili con gli orientamenti comunitari richiamati. Il Governo è determinato a realizzare le riforme concordate a livello comunitario, nella convinzione che la necessità di rivedere l’assetto istituzionale preposto alla regolazione dei rapporti e dei mercati del lavoro non possa ulteriormente essere rinviata.

    Per quanto riguarda il part-time, è bene ricordare come questa tipologia contrattuale, largamente valorizzata negli orientamenti comunitari, pure conoscendo negli ultimi tempi un netto incremento, venga ancora utilizzata in una misura ridotta rispetto agli altri paesi comunitari. In Europa usano il part-time meno di noi solo Spagna e Grecia, paesi ai quali ci accomuna anche una quota ridottissima (meno dell’8 per cento) di lavoratori anziani (fra i 55 e i 64 anni) occupati con questa forma contrattuale, così da poter favorire l’ingresso di giovani nel mercato del lavoro, uscendone loro stessi con gradualità.
    L’esperienza comparata è assai significativa quanto soprattutto alle tecniche incentivanti utilizzate per incoraggiare la stipulazione di contratti a tempo parziale. La Francia, al pari dell’Italia, rappresenta un caso dove gli incentivi di natura contributiva sono vanificati nella loro finalità promozionale a causa di una disciplina legislativa e regolamentare del tutto disincentivante. Invece in Germania tra gli incentivi di natura normativa è bene ricordare che fin dal 1985 le imprese con meno di 5 dipendenti sono esentate dall’applicazione della normativa sui licenziamenti illegittimi e nel computo di questo campo di applicazione rientrano soltanto i prestatori che lavorano un minimo di 10 ore settimanali o di 45 ore mensili. Sulla falsariga dell’esperienza olandese, è ora riconosciuto al lavoratore tedesco con anzianità di servizio di almeno sei mesi il diritto di ridurre l’orario di lavoro settimanale, salvo motivate ragioni aziendali. Ancor più significativo è il fatto che in Germania il datore ed il prestatore di lavoro possono concordare che quest’ultimo esegua la propria prestazione di lavoro a seconda delle necessità (cosiddetto lavoro a chiamata o a richiesta). Nei Paesi Bassi non esistono limiti al ricorso al lavoro a chiamata, anche perché questo non viene considerato dall’ordinamento alla stregua di un vero e proprio contratto di lavoro subordinato.
    Anche in Spagna ci si è resi conto dell’insufficienza di incentivi economici non collegati a quelli di natura normativa e con la riforma del 2001 sono stati significativamente ampliati gli spazi di ricorso al lavoro supplementare, flessibilizzando anche la distribuzione dell’orario concordato. Vale la pena ricordare infine che nel Regno Unito non esistono limiti di sorta né al lavoro a chiamata, né al lavoro supplementare.
    In Italia l’attuazione della direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, sul lavoro a tempo parziale, ad opera del decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, e del decreto legislativo 26 febbraio 2001, n. 100, costituisce, ad avviso del Governo, un esempio di trasposizione non rispettosa della volontà delle parti sociali a livello comunitario, confermata dalla suddetta direttiva. Mentre, infatti, la direttiva stessa invita gli Stati membri a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla piena utilizzazione di questa tipologia contrattuale in una logica di promozione dell’occupazione, i decreti emanati nel corso della passata legislatura introducono nuovi vincoli e pertanto tradiscono l’intento promozionale del legislatore comunitario.
    Da questo punto di vista, il decreto legislativo n. 100 del 2001 rappresenta senza dubbio un’ulteriore occasione mancata per rimuovere le incongruenze del quadro legale scaturito dal decreto legislativo n. 61 del 2000. Inutili appesantimenti burocratici mortificano l’autonomia individuale delle parti. Soprattutto i vincoli legislativamente imposti a quelle che il legislatore chiama impropriamente «clausole elastiche» (mentre in realtà si tratta di «clausole flessibili», relative cioè alla collocazione temporale della prestazione lavorativa ad orario ridotto e non alla sua estensione) costituiscono un vulnus all’autonomia delle parti sociali ed a quella dei soggetti titolari dei rapporti di lavoro, trattati con ingiustificata subalternità dal legislatore. Occorre rivedere prontamente tale disciplina, restituendo alla contrattazione collettiva ed alle pattuizioni individuali piena operatività.
    Con particolare riferimento al tema delle «clausole elastiche», il decreto legislativo n. 100 del 2001 ha mantenuto sostanzialmente inalterata la struttura di base del decreto legislativo n. 61 del 2000, che pure dichiarava di voler modificare. In particolare sopravvivono sostanzialmente due vincoli che rendono questo strumento ben poco utilizzabile in pratica. Anzitutto la contrattazione collettiva può prevedere clausole elastiche «in ordine alla sola collocazione temporale della prestazione lavorativa», introducendo quindi un elemento di rigidità in un istituto che invece potrebbe, se inteso con la necessaria flessibilità, contribuire a regolarizzare numerose forme di lavoro prestato con intermittenza e non suscettibile di esatta predeterminazione dalle parti. Il legislatore rivela in proposito un’ispirazione vincolistica davvero non condivisibile e non si vede perché le parti, a livello individuale, non possano accordarsi anche sulla elasticità della durata della prestazione dedotta in contratto e non già soltanto sulla flessibilità della collocazione temporale, peraltro penalizzata da vincoli di preavviso assai rigorosi. Il Governo ritiene che possa essere richiesto al datore di lavoro di specificare nel contratto le ragioni di natura tecnica, organizzativa o produttiva che rendono necessaria la natura elastica della prestazione, senza dar luogo ad ulteriori limiti o impedimenti ad opera della legge, così da non comprimere inutilmente l’autonomia contrattuale delle parti. Appare coerente in proposito confermare l’obbligo del prestatore di lavoro di onorare il patto volontariamente stipulato per una prestazione di lavoro ad orario parziale secondo la formula delle clausole elastiche.
    Altri ancora sono gli aspetti in relazione ai quali il legislatore nazionale ha disatteso alcune prescrizioni della direttiva comunitaria. È sufficiente in questa sede ricordare la mancata esclusione dei lavoratori occasionali, nonché la disciplina del diritto di precedenza dei lavoratori che hanno trasformato il rapporto da full-time a part-time in caso di nuove assunzioni a tempo pieno da parte del datore di lavoro, ben più temperata nella direttiva («per quanto possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione...») che nel testo legislativo italiano, la cui assolutezza rischia peraltro di innescare ampi spazi di contenzioso. Occorre anche ricordare che il testo della direttiva scoraggia il ricorso al lavoro supplementare, vanificato dalla previsione del diritto di rifiuto, dal diritto al consolidamento e dalle maggiorazioni previste per legge.
    Da ultimo è bene ricordare che le misure legislative, finora emanate con lo scopo di incentivare il ricorso al lavoro a tempo parziale, sotto l’aspetto previdenziale si sono dimostrate assolutamente inefficaci. In particolare, l’elemento che ha inciso negativamente sulle finalità incentivanti è l’aver collegato i benefici contributivi – come ha fatto il decreto ministeriale 12 aprile 2000, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 128 del 3 giugno 2000, in attuazione del disposto del decreto legislativo n. 61 del 2000 – solo alla stipula di part-time ad incremento della base occupazionale. Una conferma della inadeguatezza della scelta legislativa è data dallo scarsissimo impiego delle risorse finanziarie, stanziate dalla legge e già esigue di per sè stesse.
    Un reale ed efficace impulso all’attivazione di contratti di tale tipologia può, invece, derivare da soluzioni più flessibili, tali da valorizzare convenientemente i benefici contributivi accordati, con particolare riferimento anche alla stipula di contratti a tempo parziale in favore di particolari categorie di lavoratori, considerate svantaggiate ai fini dell’inserimento o reinserimento nel mercato del lavoro (giovani disoccupati, pensionati, lavoratori nel ciclo conclusivo della propria vita lavorativa, che riprendono il lavoro dopo un periodo di inattività).

Tipologie contrattuali innovative

    Il Governo ritiene utile introdurre nel nostro ordinamento una nuova tipologia contrattuale definibile come «lavoro intermittente» (altrimenti detto «a chiamata»), al fine di contrastare tecniche fraudolente o addirittura apertamente contra legem, spesso gestite con il concorso di intermediari e caporali. Forme di lavoro intermittente o a chiamata, consistenti cioè in prestazioni svolte con discontinuità pur nell’ambito dell’aspettativa datoriale di poter contare sulla disponibilità del prestatore, quindi nell’ambito dello schema nagoziale del lavoro subordinato, sono assai diffuse naturalmente nel mercato del lavoro nero, ma anche molti lavoratori titolari di partita IVA ovvero inquadrati come parasubordinati costituiscono di fatto altrettante fattispecie di job on call (stand-by workers) di cui brulica soprattutto il terziario. Si tratta di elementi distorsivi della stessa competizione corretta tra imprese che contrastano con un’impostazione volta a modernizzare le regole del nostro mercato del lavoro.

    Appare opportuno un intervento legislativo che consenta di inquadrare questo fenomeno non tanto come sottospecie del part-time, bensì come ideale sviluppo del lavoro temporaneo tramite agenzia, da inquadrarsi non necessariamente nello schema del lavoro subordinato. La versione più persuasiva è senz’altro quella olandese che imposta appunto il lavoro intermittente o a chiamata come una forma contrattuale che a fronte della disponibilità del prestatore a rendersi disponibile alla prestazione, prevede la corresponsione a carico del datore di lavoro di una «indennità di disponibilità», similmente a quanto accade nell’ipotesi di lavoro interinale.
    Le proposte discusse nel corso della passata legislatura con riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative suscitano, ad avviso del Governo, profonde perplessità di metodo e di merito. È bene, infatti, non dimenticare che la cosiddetta parasubordinazione appartiene pur sempre all’area del lavoro autonomo e, almeno in certi casi, della auto-imprenditorialità (non si tratta quindi di un tertium genus, ibridamente collocato in una grigia zona di frontiera, intermedia fra lavoro autonomo e subordinato) e come tale deve essere trattata. Del resto le parti sociali si stanno esercitando in una prima fase negoziale che occorre seguire con interesse nel suo sviluppo, senza quindi precostituire in sede legislativa soluzioni che finirebbero per mortificare l’autonomia contrattuale.
    Sembra invece utile coltivare un’iniziativa legislativa limitatamente alla identificazione e regolazione di fattispecie particolarmente diffuse, specialmente ma non esclusivamente nel terziario, comunque riconducibile all’area dell’articolo 409, primo comma, n. 3, del codice di procedura civile. Il Governo ritiene infatti che sia necessario evitare l’utilizzazione delle «collaborazioni coordinate e continuative» in funzione elusiva o frodatoria della legislazione posta a tutela del lavoro subordinato, ricorrendo a questa tipologia contrattuale al fine di realizzare spazi anomali nella gestione flessibile delle risorse umane. Dovranno essere ricondotti a questa tipologia i rapporti in base ai quali il lavoratore assume stabilmente, senza vincolo di subordinazione, l’incarico di eseguire, con lavoro prevalentemente od esclusivamente proprio, un progetto o un programma di lavoro, o una fase di esso, concordando direttamente con il committente le modalità di esecuzione, la durata, i criteri ed i tempi di corresponsione del compenso.
    In sintesi, si tratta di conferire riconoscimento giuridico ad una tendenza che si è rivelata visibile con il passare degli anni, soprattutto in ragione della terziarizzazione dell’economia, quella appunto di lavorare a progetto. Si rintracciano sovente caratteristiche di coordinamento e continuità nella prestazione, ma pur sempre in un ambiente di autonomia organizzativa, circostanze che reclamano un’apposita configurazione. Il che non significa affatto propendere per un intervento legislativo «pesante»: al contrario, la tipizzazione di questa forma contrattuale è finalizzata ad assicurare il conveniente esercizio dell’autonomia contrattuale delle parti. Ancorché si richieda la forma scritta, il compenso corrisposto dovrà essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro eseguito, tenendo conto dei compensi normalmente corrisposti per prestazioni analoghe nel luogo di esecuzione del rapporto, salva la previsione di accordi economici collettivi.
    La legge dovrebbe chiarire alcuni diritti fondamentali. Ad esempio, qualora il progetto o programma consista in un impegno orario personale superiore alle 24 ore settimanali, calcolate su una media annuale, il collaboratore dovrebbe aver diritto in ogni caso ad una pausa settimanale, di durata inferiore ad un giorno, nonché ad una pausa annuale, comunque di durata non inferiore a due settimane, secondo modalità concordate fra le parti. Tali pause non dovrebbero comportare alcuna corresponsione di compensi aggiuntivi. Analoghe garanzie dovrebbero essere previste in caso di malattia, gravidanza ed infortunio.
    Sarà sufficiente in questa sede precisare ancora che, in omaggio alle caratteristiche fattuali connaturate a questi rapporti, la cessazione non potrà che avvenire al momento della realizzazione del programma o del progetto o della fase di esso che ne costituisce l’oggetto, salva diversa volontà espressa dalle parti nel contratto scritto.

Contratti di lavoro a finalità formativa

    L’articolo 5 contiene la delega al Governo, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per la revisione e razionalizzazione dei rapporti di lavoro con contenuto formativo, nel rispetto dei princìpi e delle regole della Unione europea in materia di aiuti di Stato alla occupazione. Sul presupposto che gli obiettivi di cui all’articolo 16 della citata legge n. 196 del 1997 – che prevedeva l’emanazione di norme regolamentari per disciplinare organicamente la materia della formazione dei lavoratori – non sono ancora stati attuati, il Parlamento autorizza il Governo al riordino dei contratti con finalità formative sulla base dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
        a) con riferimento ai cosiddetti contratti a causa mista viene in particolare proposta una più accentuata distinzione delle funzioni alle quali tali tipologie contrattuali possono assolvere. In quest’ottica si prospetta una distinzione orientata, da un lato, a valorizzare il ruolo dell’apprendistato come strumento formativo per il mercato del lavoro nella prospettiva di una formazione superiore in alternanza tale da garantire il raccordo tra i sistemi della istruzione, della formazione e dell’orientamento, mentre il contratto di formazione e lavoro viene concepito come strumento per realizzare un inserimento o un reinserimento mirato del lavoratore in azienda, diretto cioè a realizzare un adeguamento della professionalità posseduta dal lavoratore alle concrete esigenze dell’impresa che lo assume;

        b) per quanto attiene al lavoro autonomo con caratteristiche di autoimprenditorialità, in omaggio al secondo pilastro della strategia europea per l’occupazione (imprenditorialità) si prevede una nuova ed originale forma di apprendistato e di tirocinio di impresa al fine di consentire il subentro nell’attività stessa di impresa;
        c) sul presupposto della comprovata utilità di esperienze lavorative, quali i tirocini con finalità formative e/o di orientamento, che non costituiscono per espressa previsione di legge un rapporto di lavoro, e al fine di consolidare un collegamento fra scuola/università e mondo dell’impresa, si procederà ad una revisione delle misure di inserimento al lavoro mediante questo tipo di esperienze da attuarsi attraverso una valorizzazione dello strumento convenzionale tra le pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, sistema informativo e le imprese. Per un utilizzo più mirato si propone altresì l’individuazione di una durata variabile di tali rapporti, sulla base del livello di istruzione, delle caratteristiche dell’attività lavorativa e del territorio di appartenenza;
        d) orientamento degli strumenti di formazione in alternanza, e dei relativi incentivi economici, più sopra ricordati, nel senso di valorizzare l’inserimento o il reinserimento al lavoro delle lavoratrici, al fine di superare il differenziale occupazionale di genere.

    Ai fini di questa delega, il Governo è autorizzato a sperimentare:
        a) forme di incentivazione economica erogate direttamente ai prestatori di lavoro;

        b) orientamenti, linee-guida e codici di comportamento, al fine di determinare i contenuti dell’attività formativa, concordati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e territoriale, anche all’interno di enti bilaterali, ovvero, in difetto di accordo, determinati con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

    Occorre sottolineare ancora che sarà la contrattazione collettiva a determinare le modalità di attuazione dell’attività formativa in azienda, contemperando le potenzialità di questa tecnica con quella off the job. Verranno pertanto rimossi i limiti di legge a riguardo lasciando le parti sociali del tutto libere di concordare le predette modalità, anche all’interno degli enti bilaterali.

        Per quanto riguarda gli enti bilaterali, richiamati più volte nell’ambito della presente delega, il Governo ritiene vadano adeguatamente sostenute forme che contribuiscono a modernizzare, stabilizzandolo, il sistema di relazioni industriali, espletando funzioni di mutualizzazione rispetto ad obblighi del datore di lavoro (compiti tradizionali) ovvero anche di tipo autorizzativo e certificatorio (compiti innovativi), a beneficio di una complessiva regolarizzazione del mercato del lavoro.

Orario di lavoro

    In seguito al ricorso proposto alla Corte di giustizia delle Comunità europee l’Italia è stata condannata (assieme alla Francia) per insufficiente adozione delle disposizioni di applicazione della direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (Causa C-386/98, Commissione contro Repubblica dell’Italia, sentenza del 9 marzo 2000). La Commissione europea ha avvertito che, non avendo ricevuto alcuna comunicazione delle misure adottate in esecuzione della sentenza della Corte, queste procedure di infrazione continuano in base all’articolo 228 del trattato CE. Il Governo intende prontamente porre rimedio a questa persistente inottemperanza degli obblighi comunitari, soprattutto in considerazione del fatto che già il 12 novembre 1997 le parti sociali avevano raggiunto un’intesa che avrebbe dovuto favorire una tempestiva e completa trasposizione.

    La mancata trasposizione di questa direttiva europea sta, infatti, dando luogo a non pochi problemi interpretativi (si pensi alla questione della esistenza o meno nel nostro ordinamento di un unico limite settimanale alla durata normale dell’orario di lavoro ovvero di due limiti concorrenti, uno giornaliero e l’altro settimanale). L’implementazione della direttiva consentirebbe in particolare di superare definitivamente alcune interpretazioni, tese a sminuire la riforma dell’orario di lavoro delineata nell’articolo 13 della legge n. 196 del 1997, che ancora oggi vorrebbero subordinare la possibilità di modulare l’orario di lavoro su base settimanale, mensile o annuale al vincolo delle otto ore di lavoro giornaliere come orario di lavoro normale. Occorrerà pertanto procedere rapidamente a completare la trasposizione con riferimento alle disposizioni riguardanti il riposo giornaliero, la pausa giornaliera e le ferie annuali.
    L’articolo 6 contiene la delega al Governo, da esercitare entro il termine di sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per la trasposizione della citata direttiva comunitaria n. 93/104/CE, nel rispetto delle intese raggiunte dalle parti sociali nell’avviso comune del 12 novembre 1997 e fermi restando gli effetti dei contratti collettivi vigenti alla data di entrata in vigore della legge delegata.
    Al fine di garantire una corretta e integrale trasposizione della direttiva n. 93/104/CE il Governo, sentite le associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative, potrà apportare modifiche e integrazioni al decreto legislativo 26 novembre 1999, n. 532, in materia di lavoro notturno, e alla legge 27 novembre 1998, n. 409, di conversione del decreto-legge 29 settembre 1998, n. 335, in materia di lavoro straordinario, nonché alle discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, con particolare riferimento al commercio, turismo, pubblici esercizi e agricoltura. Poiché infatti il precitato avviso comune non è stato firmato da organizzazioni datoriali rappresentative di questi comparti, appare consigliabile approfondire le loro specificità, verificando nel contempo, con particolare ma non esclusivo riferimento a tali comparti, la congruità della normativa anticipatoria della trasposizione intervenuta in materia di lavoro notturno e straordinario.

Contratti di lavoro a orario ridotto

    L’articolo 7 contiene la delega al Governo, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, a riformare la disciplina del part-time al fine di promuoverne l’utilizzo, quale tipologia contrattuale idonea a incrementare il tasso di occupazione, soprattutto di particolari soggetti quali le donne e i giovani.

    Sul presupposto che l’attuale disciplina contiene rigidità non rispondenti alla logica promozionale indotta dalla disciplina comunitaria, comprese le linee-guida della strategia europea per l’occupazione, il Governo viene delegato dal Parlamento ad introdurre i seguenti correttivi alla disciplina vigente:

        a) agevolazione del ricorso a prestazioni di lavoro supplementare nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto orizzontale, nei casi e secondo le modalità previste da contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente rappresentative su scala nazionale e/o territoriale, anche sulla base del consenso del lavoratore interessato in carenza dei predetti contratti collettivi;

        b) introduzione della possibilità per il datore di lavoro, nelle ipotesi di lavoro a tempo parziale cosiddetto verticale e misto, di variare, anche sulla base del semplice consenso del lavoratore ove la contrattazione collettiva non disponga a riguardo, nonchè a fronte di una maggiorazione retributiva, la durata della prestazione lavorativa. Secondo l’attuale disciplina, infatti, il datore di lavoro, soltanto sulla base di esplicita previsione del contratto collettivo di riferimento, può solamente modificare la collocazione temporale della prestazione di lavoro;
        c) estensione delle forme flessibili ed elastiche anche ai contratti a tempo parziale a tempo indeterminato. L’attuale disciplina infatti nei confronti dei contratti a termine prevede la possibilità di prevedere forme flessibili di part-time esclusivamente nei casi di assunzioni per ragioni sostitutive, ciò che pare contrastare ancora una volta con una elementare logica promozionale dell’istituto in parola;
        d) abrogazione di ogni disposizione in contrasto con la logica di piena utilizzazione del part-time, ancora presente nella normativa in parola, come il cosiddetto diritto di ripensamento del prestatore di lavoro di accettare il regime ad orario ridotto elastico, peraltro liberamente convenuto, in modo da pretendere di ritornare all’orario predeterminato;
        e) generalizzazione del principio di computo pro rata temporis del lavoratore ad orario ridotto, con riferimento al campo di applicazione del Titolo III della legge 20 maggio 1970, n. 300;
        f) integrale estensione al settore agricolo del lavoro a tempo parziale, al fine di promuovere l’utilizzazione di uno strumento utile per far riemergere quote di lavoro non dichiarato altrimenti destinate a restare sommerse.

Orario di lavoro e nuovi contratti

    L’articolo 8 contiene la delega al Governo, su proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per l’introduzione e la razionalizzazione di particolari e specifiche tipologie di lavoro a chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio e a prestazioni ripartite, volte a garantire l’adattabilità delle imprese e dei loro lavoratori, secondo le indicazioni della strategia europea per l’occupazione che (vedi orientamento 14 per il 2002) raccomanda «di contemplare nella normativa nazionale tipologie contrattuali più flessibili», così che «coloro che lavorano con nuovi contratti di lavoro flessibili godano di una sicurezza adeguata e di una posizione occupazionale più elevate, compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori»:
        a) l’introduzione di una tipologia contrattuale particolare denominata contratto di lavoro a chiamata, rispetto al quale il prestatore si pone a disposizione di un datore di lavoro, pubblico o privato, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa, per il soddisfacimento di esigenze di carattere occasionale, transitorio, intermittente o discontinuo. Tale contratto può essere stipulato nelle ipotesi previste dai contratti collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative su scala nazionale o, in via provvisoriamente sostitutiva, nei casi indicati con decreto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. Anche in assenza di previsioni di contratto collettivo o del Ministero del lavoro e delle politiche sociali si potrà ricorrere alla suddetta tipologia (in via sperimentale) nei confronti di persone inoccupate o disoccupate con meno di 25 anni di età ovvero da lavoratori con più di 45 anni di età che siano stati espulsi dal mercato del lavoro in funzione di processi di riduzione o trasformazione di attività o di lavoro e iscritti alle liste di mobilità e di collocamento. In conformità con quanto disposto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 210 del 1992 in tema di lavoro a chiamata, il lavoratore intermittente ha diritto a una cosiddetta indennità di indisponibilità soltanto se è obbligato a rispondere alla chiamata, altrimenti ha diritto a una retribuzione proporzionale al lavoro svolto: la delega richiesta dal Governo al Parlamento comprende entrambe queste ipotesi, ricorrenti rispettivamente nei Paesi Bassi ed in Spagna;

        b) ricorso al lavoro a tempo determinato e temporaneo tramite agenzia anche per soddisfare le quote obbligatorie di assunzione di lavoratori disabili e appartenenti a categorie assimilate, incentivandosi in tal modo il datore di lavoro con forme meno onerose e vincolanti. Si prevede altresì la completa estensione al settore agricolo del lavoro temporaneo tramite agenzia, con conseguente applicabilità degli oneri contributivi di questo settore;
        c) individuazione, con riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative, di criteri temporali di durata della prestazione e/o economici ai fini della distinzione di detta fattispecie con forme di collaborazioni meramente occasionali. Si vuole cioè ricondurre nell’alveo delle collaborazioni coordinate e continuative tutte quelle forme di collaborazione che sono caratterizzate da una lunga durata e/o da compensi di un certo rilievo. Si propone altresì una speciale regolamentazione delle collaborazioni coordinate e continuative: a) collegando il ricorso a tale tipologia a specifici progetti o programmi concordati tra le parti, e b) prevedendo, anche nel quadro di intese collettive, una serie di tutele a garanzia della dignità e sicurezza dei collaboratori, nonchè c) disponendo un adeguato meccanismo di certificazione dei contratti di lavoro, al fine di ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro in questione, ai sensi della procedura di cui all’articolo 9;
        d) ammissibilità di prestazioni di lavoro occasionale e accessorio, in generale e con particolare riferimento a opportunità di assistenza sociale, rese a favore di famiglie e di enti con e senza fine di lucro, da disoccupati di lungo periodo, altri soggetti a rischio di esclusione sociale o comunque non ancora entrati nel mercato del lavoro, ovvero in procinto di uscirne. Tali prestazioni potranno essere regolarizzate attraverso la tecnica di voucher o buoni corrispondenti a un certo ammontare di attività lavorativa, ricorrendo ad adeguati meccanismi di certificazione dei rapporti de quibus. È del tutto verosimile che anche con questa tecnica si potrà incoraggiare l’occupazione sia di giovani studenti o casalinghe interessate ad occupazioni del tutto saltuarie e di breve durata, sia soggetti vicini all’età del pensionamento, ovvero già titolari del trattamento pensionistico, così da introdurre una misura favorevole all’invecchiamento attivo della popolazione;
        e) ammissibilità di prestazioni ripartite fra due o più lavoratori (cosiddetto job sharing), obbligati in solido nei confronti di un datore di lavoro, per l’esecuzione di un’unica prestazione lavorativa, confermando un orientamento già espresso in sede amministrativa dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che è stato poi sviluppato da numerosi contratti collettivi.

Procedure di certificazione

    L’articolo 9 contiene la delega al Governo, da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, per disciplinare una procedura di certificazione dei rapporti di lavoro.

    Tale sistema, del tutto innovativo per l’esperienza italiana, prevede su base volontaria un meccanismo di certificazione dei rapporti di lavoro e si basa su analoghe esperienze presenti in altri paesi europei. Esso è volto a ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei rapporti di lavoro garantendo maggiore certezza alle qualificazioni convenzionali, purchè avvenute nell’ambito di enti bilaterali costituiti a iniziativa di associazioni dei datori e prestatori di lavoro dei lavoratori comparativamente rappresentative, ovvero ad opera della Direzione provinciale del lavoro.
    Il meccanismo di certificazione non potrà certamente impedire al prestatore di ricorrere al giudice per contestare la qualificazione del rapporto in relazione a modalità esecutive della prestazione che eventualmente si discostino rispetto allo schema contrattuale convenuto. Ed è addirittura superfluo ricordare l’insegnamento della Corte costituzionale e della Corte di cassazione circa la non disponibilità ad opera delle parti del tipo negoziale. Tuttavia, in caso di controversia sulla esatta qualificazione del rapporto di lavoro posto in essere, l’autorità giudiziaria competente dovrà tener conto anche del comportamento tenuto dalle parti in sede di certificazione.
    Si tratta dunque di un meccanismo finalizzato a dare alle parti ausilio nella più precisa definizione del testo contrattuale, potendo contare sul supporto fornito dall’ente bilaterale o dalla stessa Direzione provinciale del lavoro anche a mezzo di codici di comportamento, linee-guida, realizzate all’uopo in una logica di assistenza per favorire la regolarizzazione dei rapporti.

Misure sperimentali per l’occupazione

    Legislazione e contrattazione mantengono come obiettivo centrale la conservazione del posto di lavoro piuttosto che la mobilità del singolo nelle transizioni tra scuola e lavoro, tra non lavoro e lavoro, tra lavoro e formazione, determinando in questo modo anche una crescente divaricazione rispetto alle necessità delle imprese di forme flessibili di adeguamento della manodopera. Peraltro il permanere di situazioni occupazionali caratterizzate da un alto livello di tutela accanto a quelle, in rapida diffusione anche grazie a recenti riforme (lavoro temporaneo, assunzioni a termine), caratterizzate da rapporti di lavoro altamente flessibili, genera nuove forme di segmentazione del mercato, contrastando gli effetti benefici della liberalizzazione dei meccanismi di ingresso nel mondo del lavoro. Una delle soluzioni potrebbe essere quella di una riforma «simmetrica» della regolamentazione che si traduce in un duplice e contemporaneo intervento sulla normativa relativa sia al contratto a tempo determinato, sia a quello a tempo indeterminato. Ciò che rileva è rendere, tra l’altro, meno difficoltoso il passaggio a condizioni di lavoro stabile per i lavoratori che iniziano il proprio percorso con occupazioni temporanee ed eviterebbe possibili fenomeni di riduzione degli investimenti in capitale umano.

    Il Governo ritiene che alla nozione di sicurezza data dall’inamovibilità del singolo rispetto al proprio posto di lavoro occorra sostituire un concetto di sicurezza conferito dalla possibilità di scelta effettiva nel mercato del lavoro. Non solo ma è davvero urgente creare le condizioni perché si elevi la qualità della nostra occupazione, stimolando maggiori investimenti in risorse umane assunte in forma stabile, a tutto vantaggio di una crescente fidelizzazione, produttività, creatività e, quindi, qualità, della stessa forza lavoro. Occorre dunque incentivare convenientemente il ricorso al contratto di lavoro a tempo indeterminato, così da incrementarne l’uso, evitando, nel contempo, che si diffondano forme di flessibilità in entrata per aggirare i vincoli o comunque le tutele predisposte per la flessibilità in uscita.
    Il Governo dichiara a tale proposito di riconoscersi pienamente nel principio del «licenziamento giustificato», peraltro ora solennemente proclamato nella Carta di Nizza dell’Unione europea. Il modello sociale europeo deve certamente essere modernizzato ma non è assolutamente revocabile in dubbio la regola fondamentale per cui atti estintivi del rapporto di lavoro devono essere giustificati e motivati dal datore di lavoro, nonché sottoposti eventualmente al vaglio di un’autorità indipendente. Fin dal 1966 questa fondamentale acquisizione fa parte dell’ordinamento giuridico italiano ed il Governo dichiara di ritenerla definitivamente acquisita. Del pari deve ritenersi consolidato il regime attuale in connessione con i divieti del licenziamento discriminatorio, del licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio e del licenziamento in caso di malattia o maternità, tutte ipotesi che restano completamente estranee ad interventi di riforma.
    È bene aver presente in proposito ancora una volta l’esperienza comparata. In primo luogo, esistono Stati membri dell’Unione in cui, in caso di licenziamento riconosciuto illegittimo il lavoratore può pretendere unicamente il risarcimento del danno. Si tratta del Belgio, della Danimarca, del Regno Unito, della Finlandia (dove il lavoratore può tuttavia pretendere interventi di formazione, a carico del datore, che conservino o migliorino la sua professionalità). Negli altri ordinamenti è sempre prevista la possibilità di corrispondere un’indennità compensativa in alternativa alla reintegrazione nel posto di lavoro. Così in Francia dove il datore non è tenuto a dar corso all’ordine di reintegrazione del conseil des prud’hommes, potendo liberarsi corrispondendo un’indennità sostitutiva fino ad un massimo di 39 settimane di retribuzione. Stesso regime vige in Germania (dove tuttavia il datore di lavoro ha l’onere di motivare le ragioni che rendono impraticabile la reintegrazione), in Grecia, in Spagna (occorre un rifiuto motivato del datore a reintegrare e viene in tal caso comminata una indennità fino ad un massimo di 15 giorni di retribuzione per anno di lavoro, senza superare le 12 mensilità), in Svezia (l’indennità sostitutiva è compresa tra le 16 e 48 mensilità, a seconda dell’età e della anzianità di servizio del prestatore).
    L’articolo 10 contiene la delega al Governo per introdurre in via sperimentale, entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, misure volte a sostenere e incentivare l’occupazione regolare a tempo indeterminato, prevedendo in particolare, in caso di cessazione del rapporto di lavoro, quale alternativa alla reintegrazione nel posto di lavoro il risarcimento.
    Si tratta di una sperimentazione che potrà prolungarsi non oltre quattro anni dalla emanazione dei decreti legislativi di applicazione della presente legge, così da verificare l’opportunità o meno di ulteriori e più durature modifiche dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sostituendo al regime di stabilità reale del posto di lavoro quello della tutela obbligatoria di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni.
    La possibilità del risarcimento in luogo della reintegrazione è tuttavia ammessa soltanto in relazione a misure di riemersione, stabilizzazione dei rapporti di lavoro sulla base di trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato, politiche di incoraggiamento della crescita dimensionale delle imprese minori, non computandosi nel numero dei dipendenti occupati le unità lavorative assunte per il primo biennio.
    È appena il caso di affermare che il Governo riconferma i divieti attualmente vigenti in materia di licenziamento discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché in relazione al licenziamento della lavoratrice in concomitanza con il suo matrimonio a norma degli articoli 1 e 2 della legge 9 gennaio 1963, n. 7, oltre alle ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro di cui all’articolo 2110 codice civile.

Arbitrato

    In un quadro regolatorio moderno dei rapporti di lavoro anche la prevenzione e la composizione delle controversie individuali di lavoro deve ispirarsi a criteri di equità ed efficienza, ciò che senza dubbio non risponde alla situazione attuale. La crisi della giustizia del lavoro è, infatti, tale soprattutto per i tempi con cui vengono celebrati i processi, da risolversi in un diniego della medesima, con un danno complessivo per entrambe le parti titolari del rapporto di lavoro. È necessario anche in proposito guardare alle esperienze straniere più consolidate (dai tribunali industriali britannici ai probiviri francesi) per trarne motivo di riflessione e di approfondimento.

    La situazione, specialmente in alcune sedi giudiziarie, è davvero grave e deve essere affrontata con assoluta urgenza. A tal proposito il Governo considera assai interessante la proposta, da più parti avanzata, di sperimentare interventi di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi sufficientemente rapidi.
    Tutte le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate con maggiore equità ed efficienza per mezzo di collegi arbitrali. Con particolare riferimento al regime estintivo del rapporto di lavoro indeterminato, appare opportuno attribuire allo stesso collegio arbitrale l’opzione fra la reintegrazione e il risarcimento, avuto riguardo alle ragioni stesse del licenziamento ingiustificato, al comportamento delle parti in causa, alle caratteristiche del mercato del lavoro locale.
    Fra l’altro alcune recenti intese fra le parti sociali hanno certamente rafforzato la soluzione arbitrale in alternativa a quella giudiziale, pur nei limiti e nel rispetto dei principi costituzionali che vietano l’obbligatorietà di tale mezzo di soluzione delle controversie (si veda recentemente la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 527 del 3 agosto 2000). Il Governo a riguardo considera con perplessità le conclusioni, non unanimi, cui è approdata sul punto la «Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro» che ha operato nel corso della passata legislatura per incarico del Ministero della giustizia e del Ministero del lavoro e della previdenza sociale. Si legge, infatti, nella Relazione che non si è raggiunto consenso sull’abrogazione – pure sostenuta da numerosi commissari – del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie ex articolo 409 del codice di procedura civile e su clausole compromissorie, trasfuse nel contratto collettivo e richiamate nel contratto individuale, che consentano la devoluzione in arbitri anche quando abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi, nonché sull’impugnabilità, in un unico grado davanti alla Corte d’appello, e solo per vizi procedimentali.
    L’articolo 12 contiene la delega al Governo a emanare, su proposta del Ministro della giustizia, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e con il Ministro per la funzione pubblica, da esercitare entro il termine di un anno dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi in materia di arbitrato nelle controversie individuali di lavoro, abrogando l’articolo 412-ter e modificando parzialmente l’articolo 412-quater del codice di procedura civile. La delega implica l’emanazione di uno o più decreti legislativi che siano ispirati dai seguenti criteri e principi direttivi:

        a) compromettibilità in arbitri delle controversie, direttamente o per il tramite dell’organizzazione sindacale alla quale datori e prestatori di lavoro aderiscono o abbiano conferito mandato, anche nel caso tale facoltà non sia prevista dalla contrattazione collettiva nazionale applicabile;

        b) necessità che la clausola compromissoria venga redatta in forma scritta, a pena di nullità, prevedendosi obbligatoriamente il termine per l’emanazione del lodo, nonché i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti agli arbitri;
        c) possibilità delle parti, in qualunque fase del tentativo di conciliazione, od al suo termine in caso di mancata riuscita, di affidare allo stesso conciliatore il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia;
        d) natura volontaria della compromissione in arbitri delle controversie individuali di lavoro, risultante da atto scritto contenente, a pena di nullità, il termine per l’emanazione del lodo, nonché i criteri per la liquidazione dei compensi spettanti all’arbitro;
        e) il superamento del divieto di compromettibilità in arbitri delle controversie individuali in relazione a clausole compromissorie, che abbiano ad oggetto diritti dei lavoratori derivanti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, affermandosi conseguentemente il lodo secondo equità;
        f) la decadenza del collegio arbitrale allo spirare del termine di incarico senza emissione del lodo;
        g) rimessa al collegio arbitrale, e della reintegrazione nel posto di lavoro, a discrezione del collegio arbitrale, in deroga a quanto previsto dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, e successive modificazioni;
        h) l’impugnabilità, in un unico grado e davanti alla Corte d’appello, del lodo arbitrale, soltanto per vizi procedimentali;
        i) immediata esecutività del lodo.

    Val la pena sottolineare che l’introduzione del lodo secondo equità corrisponde all’affermazione e consolidamento di un principio in realtà già accolto dall’evoluzione più recente dell’ordinamento, ancorché non espresso con chiarezza ed univocità.

    Infatti l’articolo 43, comma 7, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, ha espressamente abrogato l’articolo 5, secondo e terzo comma, della legge 11 agosto 1973, n. 533, i quali testualmente stabilivano che «il lodo arbitrale non è valido ove vi sia stata violazione di disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi», disponendo anche che «si osservano le disposizioni dell’articolo 2113, secondo e terzo comma, del codice civile, modificato dall’articolo 6 della presente legge». Dunque attualmente opera soltanto il primo comma dell’articolo 5 della legge n. 533 del 1973, in virtù del quale «nelle controversie riguardanti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, l’arbitrato irrituale è ammesso soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero dai contratti e accordi collettivi. In questo ultimo caso, ciò deve avvenire senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria».
    Del resto l’intento del legislatore era stato confermato, per quanto qui rileva, dall’intervento dell’articolo 19 del decreto legislativo 29 ottobre 1998, n. 387, che ha determinato le novità contenute negli articoli 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile, al punto che la prima delle due norme da ultimo richiamate è stata rubricata come «arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi». Il legislatore, dunque, aveva nel 1998 inderogabilmente prescritto un collegamento inscindibile fra arbitrato e contrattazione collettiva, escludendo soluzioni alternative. In tal modo si erano tuttavia poste le premesse per la perpetuazione della marginalità dell’esperienza arbitrale nel nostro ordinamento giuridico.
    Senza escludere la possibilità che le associazioni rappresentative dei datori e prestatori di lavoro concordino discipline utili alla incentivazione e sperimentazione della soluzione arbitrale, appare oggi senz’altro opportuno consentire che la clausola compromissoria possa essere stipulata anche in assenza e comunque al di fuori della contrattazione collettiva, secondo le autonome determinazioni delle parti coinvolte nella controversia ma ugualmente determinate ad evitare il ricorso al giudice ordinario.
    Il sopra richiamato articolo 19, comma 14, del decreto legislativo n. 387 del 1998 ha dunque sostituito il primo comma dell’articolo 412-quater del codice di procedura civile (dettato a sua volta con l’articolo 39 del precedente decreto legislativo n. 80 del 1998), in base al quale era stabilito che il lodo irrituale sarebbe stato impugnabile per «violazione di disposizioni inderogabili di legge e per difetto assoluto di motivazione». Ed in ogni caso, come già accennato, sono stati espressamente abrogati i commi secondo e quinto dell’articolo 5 della legge n. 533 del 1973.
    Appare del tutto agevole concludere che, venuto meno il precetto che prescriveva l’invalidità del lodo in caso di «violazione di disposizioni inderogabili di legge ovvero di contratti o accordi collettivi», il giudizio dell’arbitro irrituale è svincolato da regole eteronome e quindi può giudicare secondo equità. Una conclusione che quindi consentirebbe già oggi di prospettare questo tipo di giudizi arbitrali.
    Proprio per valorizzare pienamente la volontà delle parti controvertenti di compromettere in arbitri la disputa che il Governo chiede al Parlamento di essere delegato per affermare definitivamente l’ammissibilità del giudizio arbitrale secondo equità.

Disposizioni finali

    L’articolo 13 contiene le disposizioni finali. Gli schemi dei decreti legislativi, deliberati dal Consiglio dei ministri e corredati da una apposita relazione cui è allegato il parere della Conferenza unificata di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sentite le parti sociali, dovranno essere trasmessi alle Camere per l’espressione del parere da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti entro il sessantesimo giorno antecedente la scadenza del termine previsto per l’esercizio della relativa delega. In caso di mancato rispetto del termine per la trasmissione, il Governo decade dall’esercizio della delega. Le competenti Commissioni parlamentari sono chiamate ad esprimere il loro parere entro trenta giorni dalla data di trasmissione. Entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti legislativi di cui all’articolo 13, il Governo potrà emanare eventuali disposizioni modificative e correttive con le medesime modalità di cui al presente articolo e nel rispetto dei medesimi criteri e princìpi direttivi.